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Golpe in Birmania, deposta San Suu Kyi

Arrestato il Nobel per la Pace: i generali al potere. Sullo sfondo l’eccidio dei rohingya.

- di Roberto Scarcella

Un colpo di Stato. I militari al potere, che non è mai una bella notizia. Un premio Nobel per la Pace in carcere, per l’ennesima volta. Per noi occidental­i, cresciuti con film e soldatini di cowboy e indiani, l’equazione è fin troppo facile. I nostri di qua e i loro di là. Buoni contro cattivi. Non in Myanmar, o Birmania, che dir si voglia. Un Paese dove nulla è come sembra, compresi nomi, capitali e bandiere. Compresa la sua eroina, figlia di un eroe: Aung San Suu Kyi. Per i suoi concittadi­ni, sempliceme­nte, ‘La Signora’.

Per capirci qualcosa di meno, per poi a provare a capirci qualcosa di più, si può partire da Yangon, per molti ancora Rangoon. La città più popolosa, la più vicina a un aeroporto internazio­nale, quella dove passa chi fa affari oppure le vacanze. Ma non la capitale, non più. Dal 2005 il regime spostò (quasi) tutto in un posto che prima non esisteva, Naypyidaw. L’hanno fondata da zero, costruendo ovunque strade a quattro corsie sempre semivuote. Perché? Per proteggerl­a dagli uragani, essendo lontana dalla costa, per evitare proteste sotto i palazzi del potere, visto che la gente che fa rumore si trova a Yangon, a 320 chilometri di distanza, per dare retta alla tradizione locale degli indovini, che con le loro predizioni facevano spostare le capitali. Il Paese dove tutto

può cambiare E poi le bandiere, sette diverse in 80 anni. Cambiate per via di chi veniva a martoriare il popolo birmano da fuori (inglesi e giapponesi) e chi lo faceva direttamen­te da dentro (i regimi militari). L’ultima bandiera, quella che c’è ancora oggi – con una stella bianca nel mezzo e tre strisce orizzontal­i: una gialla, una verde e una rossa – è stata introdotta nel 2010, insieme a un nuovo inno e un nuovo nome. Lo decisero i generali al potere dal 1989 quindici giorni prima del ritorno al voto, venti prima della liberazion­e di San Suu Kyi, che tra galera e domiciliar­i aveva passato quindici dei ventun anni precedenti in isolamento. Un calvario fatto di torture fisiche e psicologic­he.

La Signora veniva sempre associata a Nelson Mandela, anche se in comune i due avevano meno di quel che si potrebbe credere. Lei figlia di un uomo potente, di un padre della nazione ucciso dal rivale politico, laureata in India e poi a Oxford, con una scrivania all’Onu e sposata con un britannico. Lui figlio di un capovillag­gio di una provincia povera e sperduta, diventato avvocato, attivista, bombarolo, ricercato, guru, infine presidente del suo Paese. Cosa che lei non è mai riuscita a diventare nemmeno dopo il ritorno alla scena politica e i trionfi elettorali. Il tutto per una regola studiata bene – apposta per lei – dal regime militare: se hai figli con passaporto straniero puoi avere il potere, ma non la massima carica. Per entrambi si mobilitaro­no attivisti e politici di mezzo mondo. Per lui cantarono Youssou N’Dour e Little Steven. Per lei Jane Birkin e Damien Rice. Per entrambi gli U2. Icone pop da esibire su una maglietta che hanno faticato a imporsi nel modo sperato. La forza delle idee e del carisma, l’obbligo di farsi megafono e imbuto di mille forze uguali e contrarie che si scontrano con la dura realtà. La realtà per Aung San Suu Kyi ha due nomi, uno molto noto, libertà d’espression­e, l’altro poco o nulla: Rohingya. Qui inciamperà, ripetutame­nte, intorbiden­do un’immagine limpida costruita in decenni di sofferenza iniziati il 20 luglio 1989, giorno del primo arresto.

San Suu Kyi era rientrata in Birmania nel 1988, dopo 28 anni all’estero, per accudire la madre malata. In quello stesso periodo, Ne Win, dittatore e autore del golpe del 1962, si fece da parte. L’8-8-88 la gente scese in piazza chiedendo a gran voce la democrazia. Meno di un anno dopo la Signora è dietro le sbarre. In quel momento non poteva sapere che la solitudine sarebbe stata – a fasi alterne – la sua compagna per 21 anni. Nel 1991 le viene assegnato il Nobel che non potrà andare a ritirare. Ma una prova ancora più dura è datata 1999. Al marito malato, che vive in Inghilterr­a, vengono dati pochi mesi di vita. Il regime gli rifiuta il permesso di poter visitare la moglie ai domiciliar­i. In compenso a lei viene concessa la possibilit­à di raggiunger­lo. Sapendo che al ritorno nessuno l’avrebbe fatta rientrare in Birmania, sceglie a malincuore di non vedere mai più il marito.

Nel 2002 torna in semilibert­à in seguito a forti pressioni dell’Onu, ma non c’è modo – per lei – di stare tranquilla. Il 30 maggio 2003 sfugge a un attentato in cui vengono massacrati diversi suoi sostenitor­i (un cosa simile accadde già nel 1996). Di nuovo ai domiciliar­i viene prima condannata ai lavori forzati, infine liberata – nel 2010 – sei giorni dopo le elezioni. Una mossa studiata per evitare di averla in Parlamento, dove entrerà comunque nel 2012 tramite elezioni suppletive. Da lì diventa capo dell’opposizion­e, trampolino perfetto per vincere le elezioni nel 2015. Un successo netto ma mai pieno, perché la democrazia birmana non sarà mai veramente tale, restando ostaggio dei militari che mantengono un quarto dei seggi, abbastanza da controllar­e ed evitare modifiche alla Costituzio­ne pensata e scritta da loro. Quel genocidio tenuto nascosto San Suu Kyi non ha le mani completame­nte libere, ma fa ben poco per muoverle almeno per quanto le è permesso. Sotto la sua guida il processo di democratiz­zazione si ferma. Anzi, alcuni indicatori di primaria importanza vedono la Birmania arretrare: viene ulteriorme­nte limitata la libertà di stampa, i giornalist­i scomodi sono arrestati, aumentano prigionier­i politici e censura su internet. Le leggi dei militari sono difficili da toccare, ma San Suu Kyi nemmeno ci prova. In questo quadro s’inserisce la persecuzio­ne dei rohingya, minoranza etnica di fede islamica (in un Paese a maggioranz­a buddista) che vive nell’Ovest del Paese, vicino al Bangladesh e non ha diritto di cittadinan­za. I primi scontri armati del 2017 diventano nel giro di poco tempo una violazione sistematic­a dei diritti umani, con violenze, stupri e migrazioni di massa che fanno gridare l’Onu e diverse Ong al genocidio.

San Suu Kyi difende oltremisur­a i soprusi dei militari. Le colombe interpreta­no la sua apparente debolezza come un atto di realpoliti­k in salsa asiatica: una lenta democratiz­zazione in cambio di tutti e due gli occhi chiusi davanti alle violenze di Stato. Ma in Occidente inizia a essere criticata, le vengono ritirati premi importanti come il Sakharov, infine si ritrova a mentire davanti alla Corte dell’Aja, definendo fuorvianti le voci sui rohingya. Provò a declassare tutto a un generico “conflitto armato interno” nascondend­o l’orrore, lei che l’orrore l’ha vissuto a lungo in prima persona. Imperdonab­ile.

Certo, il golpe non è un atto di generosità dei militari verso il popolo, tantomeno di apertura verso la democrazia. Non lo è mai. Pare che ci sia la paura di perdere ulteriorme­nte potere dopo i risultati delle ultime elezioni del novembre scorso, una vittoria a valanga del partito di San Suu Kyi. A tutto questo va aggiunta l’ambizione del generale Min Aung Hlaing che – prossimo alla pensione – vorrebbe regalarsi un ultimo giro di notorietà e potere.

Chissà quanto dura, questa volta, la bandiera.

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KEYSTONE L'ultima passerella

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