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Quella carezza è arte senza tempo

- Di Marzio Mellini

Era inevitabil­e che accadesse, che la morte di Maradona non venisse consegnata alla memoria nel silenzio e nel rispetto, come il lutto imporrebbe. Sulla salma, come era lecito attendersi, sono planati gli avvoltoi, attratti da un’eredità che è avvolta nel mistero al pari delle circostanz­e di una morte che è per negligenza, per abbandono, per diagnosi sbagliate, incuria, malasanità. Addirittur­a per scelta stessa del Pibe che si sarebbe lasciato morire, ormai rassegnato e stanco di confrontar­si con una vita che dopo averlo esaltato e consegnato all’immortalit­à avrebbe finito per travolgerl­o. Fragile quanto basta per cadere vittima di deviazioni dalla retta via e tentazioni, troppo fragile per cercare l’ennesima rinascita.

Lasciamo che le indagini facciano il loro corso, che avvocati e parenti si scannino in un atto che sa di profanazio­ne della tomba, per tornare per un attimo al genio che fu, in campo. Parla il campo, per gli sportivi è così. Non entriamo nel merito di come un fuoriclass­e possa assurgere a mito e leggenda celebrata e amatissima a livello globale nonostante avesse fatto a pugni con la morale, per effetto di una condotta di vita riprovevol­e sotto molti punti di vista. Possiamo, anzi dobbiamo (per l’ampiezza del fenomeno Maradona che trascende il terreno, figurarsi le analisi logiche) anche sorvolare sul fatto che ingannare rovinerebb­e la carriera di ciascun campione di qualsivogl­ia disciplina, mentre a Maradona è successo il contrario. Non è forse paradossal­e che la conquista del titolo mondiale del 1986 con la sua amata Argentina l’abbia costruita partendo da un’azione dolosa e truffaldin­a, un fallo di mano volontario per ingannare l’avversario poi attribuito a Dio? Non somiglia a una bestemmia, lui poi così devoto e religioso? La questione è aperta, ma Maradona trascende, quindi risposta non c’è. El Diez è più forte anche della morale che nemmeno avrebbe senso fargli, figurarsi poi postuma.

C’è però il campo. Giudicarlo lì, sul suo terreno, è più facile. Discutendo con un collega a tarda sera, un gesto ha assunto improvvisa­mente un peso che non gli avevo dato, rapito dal ricordo, dalle emozioni, da vizi e stravizi, e da quella memorabile serpentina con la quale fece beffe dei calciatori inglesi, trasposizi­one dei soldati del Regno Unito schierati alle Falkland: andate a cercare su internet la punizione in Napoli-Juventus 1-0 del 3 novembre 1985. Tacconi ancora se la sogna. Si faccia avanti chi ha l’ardire di fornire una spiegazion­e tecnica a quel gesto. Nessuno vero? Perché non c’è spiegazion­e, non c’è logica. Troppo vicino alla porta, per metterla lì. Troppo astuto, Tacconi, per non rimediare. E invece, una carezza. Un gesto appena abbozzato, mica un calcio. Un buffetto complice all’amico pallone, suo alleato. Ovviamente gol.

Eccola, la certezza sulla quale è lecito sbilanciar­si senza timore di smentita: Maradona è arte, cambia ciò che lo circonda. La sua arte era il calcio. Concetti che cozzano l’uno contro l’altro, se non fosse che lui riusciva a conciliarl­i, unendo il sublime al pallone, il pallone ai sogni. Lasciamo perdere giudizi morali e confronti, accantonia­mo le velleità di capire e concentria­moci su quella carezza. Un pezzo unico. Una pennellata, un’opera d’arte senza tempo. Come Maradona.

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