Artisti dello spazio pubblico
Tra Chiasso e Buenos Aires, sullo sfondo del ‘CRASH’ della Biennale dell’Immagine, dentro la mostra di Gian Paolo Minelli – Ex Barrio 26 – aperta fino al 1° dicembre a Ligornetto
L’undicesima Biennale dell’Immagine, ‘CRASH’, Chiasso, prende spunto da un termine che ci consegna l’idea di scontro, rottura. Nei costumi, nelle ambiguità linguistiche, nelle relazioni. Piu’ di vent’anni fa con ‘Crash’, David Cronenberg esplorava il rapporto ormai malato, anomalo, tra corpo e desiderio, rifacendosi ai testi di William Burroughs. Estendendo l’idea di crash ad altri piani di lettura, ci soffermiamo su quello di Gian Paolo Minelli – Ex Barrio 26 – mostra presentata a Casa Pessina, Ligornetto, aperta al pubblico fino al 1° dicembre 2019 Una mostra a cura di Barbara Paltenghi Malacrida, collaboratrice scientifica del Museo d’Arte di Mendrisio e Florencia Malbran che ne ha curato il testo critico. Minelli lavora tra Buenos Aires e Chiasso, la sua fotografia esplora il tema dei luoghi e delle città nella vita quotidiana e nei mutamenti sociali. Un altro campo di ricerca è quello del ritratto-autoritratto. Diversi i riconoscimenti, le esposizioni individuali e collettive in gallerie e centri d’arte contemporanea. Lo incontro insieme a Barbara prima del suo rientro a Buenos Aires.
Villa miseria
Cosa ti porta al progetto? «Sono stato convocato dall’Istituto delle abitazioni popolari della città di Buenos Aires. La gestione di questi ultimi cinque anni ha avviato un’area cultura, accanto ad architetti, urbanisti, tecnici. Ho conosciuto il direttore, Gonzalo Aguilar, docente di letteratura brasiliana, persona dalle ampie vedute che mi ha chiesto di documentare il Barrio 26, prossimo a scomparire e vicino a un fiume inquinato. Era dare conto di una storia».
Gli obiettivi dell’Istituto? «D’integrazione urbana nelle Favelas o, come si chiamano in Argentina, nelle Villa miseria. I progetti culturali vengono portati avanti da artisti per migliorare lo spazio pubblico, insieme a quelli di carattere educativo». Una proposta articolata. «Di solito in queste aree non ci sono eventi, allora si sviluppa una forma di stimolo e sostegno. Ambienti messi in relazione al degrado, alla violenza, alla droga. Gli interventi cercano di portare un’energia differente. Letture di testi, poesia: creare degli orti come gesto quasi artistico». ll Barrio, a che periodo risale? «E’ stato creato piu’ di cinquant’anni fa. Insieme a me uno scrittore argentino, Leonardo Sabbatella, accompagnandomi per quasi un anno. Incontri, incontri informali, riunioni con gli abitanti del quartiere». Parlavate con loro? «Siamo passati di casa in casa per capire le loro storie, sentire i racconti. Poi, pian piano ho tolto la macchina fotografica iniziando a documentare». Un modo per entrare nel clima. «Questo lo faccio sempre. Non sono un fotoreporter che va e documenta subito. La macchina è apparsa quasi alla fine del progetto, durante i veri e propri preparativi del trasloco e la distruzione del quartiere. Allora, cominciavo a fotografare. Prima abbiamo lavorato, penso alle interviste di Leonardo, per essere accettati e capire cosa fotografare, non quello che salta subito all’occhio». Un nuovo sguardo? «Abitando da diversi anni in città ero stanco dell’immagine tipica delle Villa miseria».
Persone in cittadini
Ci sono stati momenti conviviali? «Guarda, in Argentina appena familiarizzi ti invitano a mangiare l’asado, così è avvenuto anche al Barrio. L’istituto organizzava incontri su come sarebbe stata la nuova realtà, le regole da conoscere partendo da zero». Una nuova consapevolezza. «Questo aspetto mi ha colpito, dice Barbara. Non si tratta solo di un trasloco ma hanno dovuto trasformare queste persone in cittadini. Vivevano, me lo diceva Gian Paolo, senza numero civico, indirizzo, che è prerogativa per avere un lavoro. Costruire una casa è relativamente facile, ma qui sono state ‘costruite’ delle persone. Un fenomeno antropologico e sociale». Credo, con aspetti complessi. «E’ stata la cosa piu’ difficile – riprende Gian Paolo – per l’organismo che porta avanti il progetto. Hanno capito che la lezione del modernismo, mettere molte persone in grandi spazi abitativi non funziona, quindi sono state costruite due strutture dove sono andate poche famiglie. Ad altre danno crediti ipotecari per comprare dove vogliono, aiutandoli». E il fiume? «Nel 2008, la Suprema Corte Argentina ha sentenziato contro lo stato nazionale, provinciale e della città autonoma di Buenos Aires, che deve occuparsi dell’emergenza ecologica, dato l’estremo inquinamento. Un fiume inquinato già negli anni 30 per via delle concerie di cuoio e dei mattatoi». In esposizione a Casa Pessina, ventidue foto. Fanno parte di un lavoro piu’ ampio? «Quando Barbara e Simone m’invitarono alla Biennale, stavo facendo una selezione delle moltissime immagini prodotte per il libro che presenterò a novembre a Buenos Aires. Il libro è sequenziale. I preparativi, il quartiere com’è, cercando di evitare immagini negative. L’opera andava al di là della semplice documentazione, esprimendo un taglio poetico». Parlavi del paesaggio. «Intorno c’è una natura stupenda. Alberi, il riflesso dell’acqua. Gli abitanti lo hanno vissuto e nel libro ci sono le nuvole, alcune case che si intravvedono. Poi i preparativi. Le persone che svuotano le loro case, buttate giù con i bulldozer».
Casa Pessina, progetti
Barbara Paltenghi, presentando la mostra ha parlato di rigore etico ed estetico. Cosa leggi nel lavoro di Gian Paolo? «Nei suoi lavori non c’è brutalità. È un occhio sensibile, prima ancora delle immagini». Gian Paolo parla di crash sociale, un quartiere che sparisce, ma anche di rinascita. Il luogo è diventato un enorme parco verde con piste ciclabili. Come ti sei trovato a Casa Pessina? «Molto bene. Uno spazio non troppo grande, bello, un’idea di atelier d’artista. Esponi come quando sei in una residenza e fai delle prove». Barbara sottolinea che a Casa Pessina, salvo eccezioni «si espongono dei progetti. Da quattro anni lo spazio superiore è dedicato alla fotografia, in un crescendo di mostre».
Dopo l’inaugurazione parlo con il direttore del Museo di Mendrisio, Simone Soldini, dell’importanza di un luogo che ospiti la fotografia. Verso casa tenevo dentro l’ultima, bellissima foto di Gian Paolo. Una bambina, unica presenza umana delle ventidue fotografie, in piedi sopra una piccola roccia vicino al fiume; assorta, solitaria, custode di quella vista. Ho pensato ai versi di Derek Walcott. “Ogni stile aspira a essere diretto come la vita”.