Le truppe Usa lasciano la Siria
A sorpresa la Casa Bianca ordina il ritiro delle truppe entro 30 giorni. Contrario il Pentagono La partenza di duemila soldati abbandona i curdi nelle mani della Turchia, pronta all’attacco. Proseguono i raid aerei. Indignati molti repubblicani
Trump annuncia il ritiro dei duemila soldati americani entro trenta giorni, nonostante le obiezioni del Pentagono. Milizie curde abbandonate nelle mani della Turchia, pronta ad attaccarle.
Via tutti, via subito. Donald Trump ha ordinato ieri il ritiro di tutti e duemila i soldati americani di stanza in Siria entro trenta giorni, dichiarando su Twitter: “Abbiamo sconfitto l’Isis, per la mia presidenza l’unica ragione per essere lì”. Pareva l’ennesima boutade del volubile presidente, ma alla fine la conferma è arrivata direttamente dall’ufficio stampa della Casa Bianca: “Abbiamo iniziato a riportare a casa le truppe mentre ci prepariamo alla prossima fase di questa campagna”. Fase per la quale, nota il ‘New York Times’, non viene fornita alcuna indicazione strategica. Non stupisce dunque che la decisione non piaccia affatto ai vertici del Pentagono, che hanno cercato fino all’ultimo di scongiurare mosse azzardate. Gli argomenti a loro favore: la ritirata lascia i destini della Siria in mano a Russia e Iran; e l’Isis – di cui sopravvivono almeno 14’500 combattenti al confine con l’Iraq – potrebbe nuovamente metastatizzare, specie in assenza di truppe locali opportunamente addestrate. E poi ci sono i curdi, supportati e protetti dai marine nella lotta contro l’Isis. Che ora si troveranno da soli, faccia a faccia con una Turchia che ha già annunciato di volerli attaccare in quanto terroristi, alleati dei gruppi paramilitari del Partito dei Lavoratori (Pkk) nemico di Ankara. Le milizie curde – che sperano di creare una regione autonoma nella Siria nordorientale, come in Iraq – controllano il 30% del territorio siriano e hanno già parlato di “pugnalata alla schiena”. Ma Trump ha obiettato al Pentagono che le intenzioni bellicose di Ankara sono una ragione in più per togliere i suoi ragazzi dalla linea del fuoco e ristabilire buone relazioni con l’alleato Nato. E poco importa se la “pugnalata” rischia di rendere poco credibili altri sforzi americani a sostegno di milizie locali, che si tratti di Afghanistan, Yemen o Somalia. È toccato proprio al Dipartimento della difesa – il cui segretario Jim Mattis appare sempre più in bilico – spiegare che il ritiro procederà a tappe forzate e che gli attacchi aerei contro l’Isis, iniziati nel 2014, continueranno comunque. D’altronde, ha voluto puntualizzare il portavoce Dana White, “la lotta all’Isis non è ancora finita”. “Sconcertati” si dicono anche i falchi repubblicani: “Se l’avesse fatto Obama saremmo tutti furiosi” per un ritiro “debole e pericoloso”, ha dichiarato il senatore filotrumpiano della South Carolina Lindsey Graham, paragonando la scelta di Trump all’abbandono dell’Iraq nel 2011. “Furioso”, secondo il ‘Guardian’, anche il neocon John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale . Diversi osservatori – fra i quali un fun-
zionario della Difesa contattato dal Nyt – hanno inoltre fatto notare la tempistica di un ritiro così improvviso, proprio nel momento in cui il cerchio di diverse inchieste pare stringersi intorno al Commander-in-chief. Il procuratore speciale Robert Mueller continua a indagare sulle ingerenze russe nella politica americana, il cosiddetto Russiagate. Martedì i giudici di Washington hanno rinviato a marzo il verdetto sul predecessore di Bolton Michael Flynn, accusandolo di avere “svenduto” il suo Paese e di avere mentito all’Fbi circa i suoi incontri coi russi. Non è andata meglio a Michael Cohen, l’avvocato di Trump condannato la settimana scorsa per avere comprato il silenzio di due amanti del presidente, su mandato di quest’ultimo. E pure la Trump Foundation, bancomat di famiglia spacciato per charity, è stata chiusa ieri dalla procura di New York. Ma magari non c’entra nulla con la Siria, e sono solo le solite malelingue.