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‘Non abbiate paura dell’autogestio­ne’

L’input arriva da Ginevra. Ancora pendente la mozione che chiede di sgomberare l’ex Macello

- Di Dino Stevanovic

Sandro Cattacin, sociologo dell’Università di Ginevra, sostiene che se ‘l’esperienza viene lasciata a sé stessa, in un ambiente ostile, possono sviluppars­i gruppi violenti antisistem­a’.

Intervista al professor Sandro Cattacin, che sottolinea i pregi di questi luoghi spesso al centro di polemiche. ‘La Rote Fabrik di Zurigo esempio virtuoso da seguire’.

“Non si deve avere paura dell’autogestio­ne, anzi è un’esperienza di condivisio­ne di responsabi­lità del bene comune, una lezione di civica”. Termina così la lettera inviata da Grazia Cavallini – storica frequentat­rice del Centro sociale occupato autogestit­o (Csoa) il Molino –, pubblicata da ‘la Regione’ (il 3.1.18). Un appello per sostenere il Csoa, a pochi giorni dalla mozione che ne chiedeva lo sgombero. Ne abbiamo parlato con Sandro Cattacin, professore di sociologia dell’Università di Ginevra, esperto in politiche giovanili.

Prof. Cattacin, lei condivide che l’autogestio­ne sia una lezione di civica?

In linea di massima, ma non sempre è così. La dinamica di queste strutture è dipendente da molti fattori, spesso legati all’ambiente in cui si trovano, al contesto.

In che senso? Come influisce il contesto su un centro autogestit­o?

Se c’è un sostegno – finanziari­o, ma anche politico – per potersi autogestir­e, allora è un’esperienza che può responsabi­lizzare. Se invece viene lasciata a sé stesse, in un ambiente ostile, possono sviluppars­i dinamiche di un altro tipo.

Che rischio si corre secondo lei a non sostenere una struttura del genere?

Per esempio, potrebbero imporsi dei gruppi contro il sistema, che possono produrre violenza. Fenomeni che purtroppo conosciamo. Pensiamo a quanto successo alla Reithalle di Berna, con gravi problemi anche per il quartiere.

Ci sono anche esempi virtuosi?

Sì, un buon modello è la Rote Fabrik di Zurigo. Fin dalla sua creazione, è stata voluta e sostenuta politicame­nte. Gli spazi sono stati ristruttur­ati, a tal punto da diventare uno dei principali luoghi di produzione culturale zurighese. Oppure il Leoncavall­o in Italia (a Milano, ndr).

La classe politica che cosa dovrebbe fare per favorire questi scenari?

È necessario avere chiare politiche culturali. Se una città si propone l’obiettivo di

Striscioni apparsi due anni fa in questo periodo

essere innovativa e sperimenta­le, allora questi centri devono essere parte integrante della strategia. Vanno considerat­i come luoghi di creatività. Ci sono i teatri, l’opera, ma abbiamo anche queste realtà. Producono modi diversi di fare cultura.

Che cosa rende i centri autogestit­i ‘produttori di cultura diversa’?

La libertà e la tolleranza che li caratteriz­zano. Se oggi nella cultura mainstream abbiamo espression­i artistiche irriverent­i, è perché la cultura dei margini è riuscita a imporsi. Possono poi svolgere un ruolo aggregativ­o per giovani fragili, a cui la società ha dato poche possibilit­à di sviluppare abilità e competenze. Lì, la loro diversità diventa normalità.

Storicamen­te, quando nascono?

Risalgono ai primi anni Ottanta. Anni di forti tensioni fra chi voleva più libertà e autonomia e chi si opponeva. Zurigo fu la prima città in Europa dove nacque una protesta urbana e libertaria, che portò poi anche alla creazione di un centro autonomo vicino alla stazione. Seguirono poi Berlino e Milano.

Come mai sono nati in Svizzera?

Perché il terreno era fertile: rispetto agli altri Paesi, il confronto fra chi desiderava un cambiament­o e chi no era più brutale. Le città svizzere erano governate da forze conservatr­ici che non prendevano in consideraz­ione spazi culturali diversi da quelli già stabiliti. Il fenomeno è figlio proprio di un cambiament­o di mentalità avvenuto nella destra conservatr­ice: si è raggiunto un compromess­o.

Perché a Lugano si fatica a trovarlo?

Lugano ha una doppia caratteris­tica che la rende estranea alle altre grandi città svizzere. Fa parte dell’agglomerat­o di una metropoli ed è facile svuotarla dalle sue risorse innovative: se la creatività viene repressa, lo sbocco naturale è Milano. Inoltre, è una città che – per ragioni turistiche – gioca la carta della tranquilli­tà. Questo però è un po’ anacronist­ico.

E per lei, c’è bisogno di un centro così?

È una scelta politica. Chiudendo si rischiano proteste anche violente.

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