Fake news, quello che non sappiamo
Il digitale prima e i social media dopo hanno cambiato il panorama dell’informazione. E, purtroppo, anche della disinformazione perché, se è vero che notizie false e ingannevoli sono sempre esistite, la facilità con cui oggi è possibile confezionare e diffondere su larga scala notizie completamente inventate cambia le regole del gioco. “Erodendo i tradizionali argini istituzionali contro la disinformazione” scrivono diversi scienziati in un commento pubblicato sulla prestigiosa rivista ‘Science’. Un problema non solo per la politica, visto che la marea di cattiva informazione colpisce anche i mercati finanziari – nel 2013 un falso tweet su un’esplosione alla Casa Bianca ha causato un crollo, per quanto momentaneo, della borsa –, la salute, con pericolose leggende metropolitane sui vaccini, l’ambiente e altre attività ancora. Eppure, proseguono gli scienziati, le certezze sono poche: la ricerca su temi fondamentali come la diffusione e gli effetti delle fake news sarebbe insomma poca e frammentaria. Si sa che il cosiddetto ‘fact checking’ – lo smentire false informazioni – non sempre funziona, e anzi a volte è controproducente, soprattutto quando ci si scontra con credenze già acquisite e condivise con una comunità. Ma, appunto, a volte: occorrono, si legge su ‘Science’, ricerche interdisciplinari che ci permettano di capire in quali condizioni il fact checking può essere efficace. Ancora peggio per gli interventi strutturali di media sociali e motori di ricerca per dare maggiore importanza alle notizie verificate – o almeno per dare all’utente maggiori informazioni sull’affidabilità della fonte. Quanto sono efficaci le misure introdotte finora da Facebook, Twitter e Google? Per saperlo, osservano gli autori del commento, occorrerebbe avere maggiore accesso ai dati che le aziende condividono solo in parte. Se vogliamo poter valutare in maniera indipendente, cioè al di là dei proclami dei diretti interessati, l’efficacia delle varie strategie, è urgente una maggiore collaborazione tra i colossi del web e il mondo accademico. Il lungo commento è insomma riassumibile con un “dobbiamo saperne di più”. Perché il rischio non è solo quello di intervenire in maniera poco (o per nulla) efficace, ma soprattutto di avvelenare il dibattito intorno alle fake news. È significativo che nello stesso numero di ‘Science’ troviamo un articolo sulla diffusione della disinformazione su Twitter nel quale si evita accuratamente di utilizzare il termine ‘fake news’, preferendo il più neutro ‘false news’. Questo perché le fake sono diventate un’arma politica, un modo semplice e veloce per mettere a tacere le notizie sgradite e le opinioni contrarie. Il rischio, per dirla più chiaramente, è che il dibattito sulle fake news diventi una baruffa nella quale è impossibile discutere in maniera razionale. Per avere un’idea, basta pensare alle discussioni, negli Stati Uniti, sul controllo delle armi da fuoco o, in Europa, a quelle sugli organismi geneticamente modificati. Sterili zuffe che lasciano i problemi, immutati, lì dove sono.