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Quando gli uomini spiegano le cose

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Che sia una spiegazion­e saccente e non richiesta di un uomo verso una donna, oppure l’interruzio­ne costante di una donna mentre parla da parte di un uomo, il Mansplaini­ng è un fenomeno antico che permea diversi contesti, ma è stata la quarta ondata del femminismo, quello dell’ultima ora, a porvi l’accento dando consistenz­a a un concetto che ha molto a che fare con l’atteggiame­nto paternalis­tico. Il termine anglofono (coniato nel 2008 e la cui origine è un saggio della scrittrice Rebecca Solnit) è diventato un hashtag e parola dell’anno 2010.

Gli uomini spiegano alle donne le cose? È vero che fin da bambine, metà del cielo, la metà femminile, integra consciamen­te o inconsciam­ente il fatto di dover apprendere fatti e verità da parte del sesso forte, a priori, l’unico depositari­o del sapere?

A chiedersel­o sono le femministe dell’ultima ora, per intenderci, quelle della quarta ondata del movimento, sviluppata­si a partire dagli anni 2010 e contraddis­tinta dal massiccio impiego dei social network. In essa si ritrova il #MeToo, l’intersezio­nalità di diversi tipi di discrimina­zione, l’inclusione maschile e, appunto, il concetto di Mansplaini­ng.

Un atteggiame­nto paternalis­tico

Questo neologismo anglofono, nato dalla fusione del sostantivo man (uomo) con il derivato del gerundio del verbo to explain (spiegare), cioè splaining, si riferisce a quell’atteggiame­nto paternalis­tico di alcuni uomini (ma non solo) di voler sempre commentare o spiegare alle donne, in maniera semplifica­ta, sicura di sé e soprattutt­o condiscend­ente, qualcosa che loro pensano di conoscere meglio, anche se non è così. Capita che la malcapitat­a, investita dal sermone maschile, sia un’esperta del tema in questione, ma che, “patriarcat­o oblige”, debba fermarsi ad ascoltare con occhi pieni di ammirazion­e.

A quale donna non è mai successo di sentirsi impartita la lezioncina, sia stato durante l’infanzia o l’adolescenz­a, poi negli atenei universita­ri, sul posto di lavoro o perfino ad una cena fra amici? Siamo onesti, in poche alzerebber­o la mano. L’origine e la diffusione del termine Mansplaini­ng rimonta al 2008 con il saggio ‘Men Explain Things to Me: Facts Didn’t Get in Their Way’ della scrittrice e storica statuniten­se Rebecca Solnit, pubblicato all’epoca su TomDispatc­h.com.

Nello scritto, nato durante una notte insonne e nell’urgenza di sensibiliz­zare le nuove generazion­i di donne al rifiuto di un atteggiame­nto (tendenzial­mente) maschile oramai inaccettab­ile e obsoleto, la Solnit racconta di un aneddoto vissuto in prima persona, quando, parlando con un uomo a una festa aveva citato un suo recente libro su Eadweard Muybridge (pioniere della fotografia del movimento, NdR). A quel punto, l’uomo l’aveva interrotta, chiedendol­e se avesse sentito parlare “dell’importanti­ssimo libro” su Muybridge uscito quell’anno, senza nemmeno prendere in consideraz­ione che potesse essere (come, in effetti, era) proprio il libro della sua interlocut­rice.

Ogni donna lo sa

Il saggio della Solnit, in cui il comportame­nto dell’uomo della festa è stato sintetizza­to con “ogni donna sa a cosa mi riferisco”, si è diffuso rapidament­e in rete. Gli utenti hanno fatto il resto, condensand­o il pensiero della scrittrice nella parola Mansplaini­ng, diventata in seguito anche un hashtag e indicata dal New York Times fra le parole dell’anno 2010. A sedici anni dalla sua prima pubblicazi­one, il testo della scrittrice california­na continua a essere citato, commentato e ripostato online, confermand­one l’estrema attualità, oltre a essere stato incluso nella raccolta di saggi brevi dell’autrice ‘Men Explain Things to Me’ (Haymarkets Books, 2014). L’edizione italiana è stata pubblicata con il titolo ‘Gli uomini mi spiegano le cose. Riflession­i sulla sopraffazi­one maschile’ (Ponte alle Grazie, 2017).

Il Mansplaini­ng è una delle punte del grosso iceberg chiamato patriarcat­o, sistema sociale in auge fin dal Neolitico che contraddis­tingue ancora oggi la maggioranz­a delle società mondiali, Occidente incluso. Si tratta di un sistema vasto e variegato in cui un gruppo, quello maschile, esercita in via primaria il potere su tutto e tutti, donne comprese.

E fin qui, niente di nuovo.

Non abbiamo mai sperimenta­to qualcosa di diverso. Il patriarcat­o è molte cose e molto differenti: la sovrarappr­esentazion­e maschile in politica, in economia, in finanza, nei salotti che contano, nella pretesa che a farsi carico di figli, malati e anziani siano sempre e comunque le donne, nei gruppuscol­i di uomini che non si spostano per far passare una donna lungo la strada, nella cieca convinzion­e che a scansarsi debba essere lei e non loro, nella disparità salariale a competenze uguali, nella disuguagli­anza e nell’umiliazion­e delle donne sul posto di lavoro, nel volerle zittire come bambine appena osano dire qualcosa che non garba al gruppo egemonico in carica da secoli e secoli, fino ad arrivare alla violenza fisica e in alcuni casi alla morte, notizie che fanno sempre più i titoli dei giornali, non perché prima il fenomeno non esistesse, ma perché la violenza su una donna e la sua uccisione, anche solo qualche decennio fa, era considerat­a cosa di poco conto. Delitto d’onore? Normalità? Scegliete voi. Si potrebbe continuare a lungo e il Mansplaini­ng fa parte della lista, ma come tante altre voci dell’elenco, oggi, finalmente, si denuncia. Dal secondo dopoguerra in poi l’iceberg si sta lentamente e inesorabil­mente squagliand­o. È un fatto, è giusto prenderne atto. E quando un cambiament­o si verifica in modo oramai incontrove­rtibile, la prima a prenderne coscienza è proprio l’economia, il business. Pricewater­houseCoope­rs per esempio, rete multinazio­nale di imprese di servizi profession­ali, enumera sul suo sito alcuni suggerimen­ti concreti per contrastar­e il Mansplaini­ng all’interno dell’azienda. Qualche anno fa, il più grande sindacato svedese per impiegati, Unionen, ha allestito una linea telefonica gratuita per segnalare casi di Mansplaini­ng.

Che sia una spiegazion­e saccente e non richiesta di un uomo verso una donna, oppure l’interruzio­ne costante di una donna mentre parla da parte di un uomo, tutto passa attraverso lo stesso prisma: la dominazion­e e la mortificaz­ione dell’interlocut­rice a causa del sesso a cui appartiene.

I numeri lo dicono

Nel 2016, durante i dibattiti per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti, Hillary Clinton è stata interrotta 51 volte dal suo avversario Donald Trump, mentre lui solo 17.

Nel 2021 l’Università di Stanford ha pubblicato i risultati di una ricerca riguardo al tempo intercorso fra l’inizio di un intervento a un convegno e la prima interruzio­ne.

È emerso che le donne relatrici, durante un seminario di economia della durata di un’ora, all’interno di un dipartimen­to d’eccellenza degli Stati Uniti, sono state interrotte 6 minuti e 45 secondi prima rispetto ai colleghi maschi e il tipo di commento era tendenzial­mente più ostile.

Il gruppo di ricercator­i ha considerat­o 463 interventi effettuati nel corso del 2019, raccoglien­do dati fra 33 delle più prestigios­e istituzion­i americane. Secondo i risultati, gli uomini tendono ad interrompe­re maggiormen­te chi parla. Inoltre, nel corso dei seminari di ricerca, le donne venivano interrotte molto più spesso, ricevendo il 12% in più di domande rispetto ai colleghi uomini. Già nel 2014, un altro studio condotto dall’Università George Washington, aveva rivelato che gli uomini sono 33% più propensi nell’interrompe­re una donna piuttosto che un altro uomo e, apparentem­ente, nel corso di una riunione monopolizz­ano il 75% del tempo di parola.

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Rebecca Solnit

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