L’Hashtag Del Cambiamento
A tre anni dalle prime, clamorose campagne, cosa è vivo e cosa è morto del #MeToo? La parola ad alcune protagoniste del movimento che ha modificato la percezione del consenso. Aprendo le porte a nuove battaglie di civiltà.
Da allora, vari uomini potenti hanno perso il lavoro. Ma gli effetti del movimento #MeToo in questi tre anni si possono vedere un po’ ovunque: negli uffici, nei media, a Hollywood, nei negozi, perfino
su TikTok. Il movimento è stato capace di spostare gli equilibri nella cultura globale, pretendendo spazi per un dialogo sul consenso e riconfigurando le relazioni di potere nella sessualità. Ma c’è di più. Il successo della campagna non solo ha fatto luce sulle devastanti conseguenze che le vittime di violenza sessuale devono affrontare: ha anche mostrato chiaramente il potere che oggi può avere un semplice hashtag. Secondo il Pew Research Center, infatti, #MeToo viene menzionato più di 55mila volte al giorno su Twitter. Ciò non sorprende se si considera che l’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che il 75% delle donne adulte nel mondo (circa due miliardi di persone) ha subito molestie sessuali.
In prima linea, tra le attiviste del movimento, ci sono due reporter del New York Times: Jodi Kantor e Megan Twohey. Insieme hanno realizzato una serie di inchieste esplosive che hanno innescato il processo di svelamento degli abusi e delle accuse messi a tacere per decenni nelle alte sfere hollywoodiane. Un lavoro premiato con il Pulitzer per il miglior giornalismo di utilità sociale. La loro collega Jessica Bennett, autrice di Feminist Fight Club. Manuale di sopravvivenza in ufficio per le ragazze che lavorano (Salani) e già Gender editor del New York Times (ha assunto il ruolo proprio al culmine della protesta), ha seguito le vicende del #MeToo fin dall’inizio. «Cominciato come una denuncia delle molestie, è diventato poi un discorso più generale sulla parità di genere», spiega Bennett al telefono da New York. «Come dimostrano le cause per la parità di salario portate in tribunale dalla Nazionale di calcio americana e dalla presentatrice della BBC Samira Ahmed, le due cose vanno di pari passo. Negli Stati Uniti c’è stato un numero record di donne candidate a cariche pubbliche e per il Congresso. In Francia gli apprezzamenti indesiderati ora sono reato, nei consigli di amministrazione si richiede a gran voce la metà dei posti, a Hollywood si cerca di facilitare l’inclusione e la diversità. Non si risolveranno tutti i problemi ma sono cambiamenti significativi».
Le parole “me too” sono state utilizzate per la prima volta dall’attivista per i diritti civili Tarana Burke che ha lavorato 11 anni con le donne sopravvissute a violenze sessuali, soprattutto donne di colore. La rinascita di “me too” come hashtag, il 15 ottobre 2017, ha spostato il focus su donne di alto profilo, attrici, prevalentemente bianche, mentre il movimento dell’inizio aveva un approccio intersezionale. Costrette tra sessismo e razzismo le donne black infatti subiscono
molestie nel luogo di lavoro tre volte più frequentemente rispetto alle donne bianche, stando al National Women’s Law Center, con un rischio maggiore se sono parte della comunità LGBTQIA+. «Credo ci sia un motivo per cui il #MeToo si è concentrato su Hollywood. Si trattava di donne famose, e uomini ben noti. Se poteva capitare a loro allora poteva capitare a chiunque», sostiene Bennett. «Poi giustamente la discussione si è evoluta includendo ragazze black e trans». E aggiunge che supportare e proteggere chi «non ha diritto di parola, o ha paura di perdere il lavoro» è fondamentale oggi.
Nel bel mezzo della resa dei conti globale sul tema della razza, si può di certo individuare un parallelismo tra #MeToo e #BlackLivesMatter che, come dice Bennett, «è una nuova linfa che nutre le comunità marginalizzate. Entrambi i movimenti stanno affrontando problemi che esistono da sempre ma ai quali non è mai stata assicurata l’attenzione che meritavano. È il momento di cambiare, stanno dicendo, non si può più aspettare». D’altra parte, lo stesso movimento #BLM ha mostrato come un fermento culturale può generare speranze di un progresso reale. «Ora vediamo meglio le ingiustizie e le loro interconnessioni. La leadership politica, almeno qui negli States, non sembra molto interessata a tutelare la dignità umana e, per esempio, si assiste a una maggiore diffusione del Covid nelle comunità di colore. Credo che la gente abbia capito l’efficacia mediatica del #MeToo, per questo si usa ancora in tanti contesti».
Per le generazioni più adulte la responsabilità è un concetto ostico da accettare: «In molti casi si tende a sopportare una certa situazione, magari minimizzandola», spiega Bennett. Ma per le generazioni Z e Alpha – quest’ultima composta dai figli presenti e futuri dei
Millennial più grandi che cresceranno con alle spalle la cultura del movimento – c’è un nuovo e più complesso atteggiamento riguardo al consenso. «Semplicemente non si limiteranno ad accettare senza fiatare», continua, «perché sanno che è sbagliato. Molte donne delle precedenti generazioni si rendono conto che non avevano molta scelta. Ma per le più giovani cercare un posto di lavoro, per esempio, vorrà dire anche verificare come in quel contesto si affrontino le tematiche sensibili, e qual è il livello di inclusività».
Alla luce del #MeToo viene da chiedersi come sarebbero visti oggi fotografi controversi come Helmut Newton e altre simili figure di rilievo in tanti settori produttivi, compresa la moda. Secondo Bennett il primo segnale di un sistema che non funziona è chi siede al comando. «Il dibattito esiste nelle cerchie più progressiste ma questa rimane un’eccezione, se paragonata al contesto generale. Talvolta siamo così compartimentalizzati... Com’è possibile che ci sia tanta attenzione alle micro aggressioni in certi luoghi di lavoro mentre non c’è un segno di cambiamento che parta dallo Studio Ovale? Se guardo il mio account Twitter posso dire che qualcosa sta cambiando? Sì. E che questo ri etta ciò che accade nel mondo? No. Gli studiosi direbbero che la cultura è più difficile da cambiare della politica, e che se cambi la politica la cultura si modificherà di conseguenza, ma in questo caso sembra proprio il contrario. Sul terreno culturale molto è già accaduto ma ancora dobbiamo capire come trasformare la legge».
Come per altri movimenti nati nei social media, non sono mancate critiche anche feroci al movimento #MeToo – per esempio quella della giornalista del New York Times Daphne Merkink che chiede polemicamente: «Di cosa vengono accusati esattamente gli uomini? Qual è la differenza tra molestia, violenza e condotta inappropriata?». Nell’articolo sul New York Magazine intitolato “It’s Time to Resist the Excesses of #MeToo”, Andrew Sullivan insiste sulla «necessità e importanza di considerare le sfumature, il contesto e i casi particolari». Entrambi concludono che esiste uno spettro di comportamenti molesti e che la pena dovrebbe essere definita di conseguenza.
È poi inevitabile chiedersi se, quando l’hashtag non sarà più di tendenza, anche il movimento sparirà. Bennett è ottimista, secondo lei il risveglio collettivo globale è stato troppo grande e profondo, non si può tornare indietro. «La coscienza non svanisce», dice. «E non può essere cancellata».