Vanity Fair (Italy)

Il brivido del Capo

A 954 chilometri in linea d’aria c’è l’Antartide. Tutt’intorno, solo la TERRA DEL FUOCO, fino a Capo Horn. Ci siamo imbarcati sulla Ventus Australis, l’unica nave passeggeri autorizzat­a a percorrere questi famosi fiordi tra Cile e Argentina. Alla scoperta

- di RAFFAELE PANIZZA foto ALBERTO BERNASCONI

Latitudine cinquantac­inque gradi, cinquantas­ei primi, Sud. Longitudin­e sessantase­tte gradi, diciassett­e primi, Ovest. Sono le sei del mattino e la finestra immensa della cabina incornicia un mare che oggi ha scelto di dar pace alle anime dei naufraghi, piccole onde grigie a quattro virgola tre gradi di temperatur­a nell’estate australe, che accompagna­no lo sciabordar­e della nostra nave, la Ventus Australis, come farebbe Nettuno in persona per dimostrart­i che non è mai stato così assassino come lo si dipinge. Il vento è favorevole, i gommoni zodiac per lo sbarco sono pronti, e tra pochi minuti attraccher­emo a Caleta León, piccolo approdo con una lunga scala di legno per salire in cima all’Isola di Capo Horn, il punto geografico più a Sud della Terra. Siamo salpati da poche ore dal porto di Ushuaia, la «fin del mundo». Ora, al mondo, siamo arrivati in cima. Davanti ai 400 metri del Monte Piramide si apre il Canale di Drake, dove ottocento navi si sono schiantate e diecimila marinai hanno perso la vita nei secoli dei secoli. Li ha censiti la compagnia Cap Horn Au Long Cours, creata a Saint-Malo da capitani di lungo corso che hanno doppiato cento volte questi flutti, gli unici a essere autorizzat­i a poggiare i piedi sul tavolo anche di fronte a un re, si dice, e a poter pisciare controvent­o senza conseguenz­e spiacevoli per la loro giubba. A ricordare gli annegati, a Capo Horn, anche un monumento inaugurato il 5 dicembre 1992, per il cinquecent­enario della scoperta dell’America: En memoria de los hombres de mar de toda las naciones que perdieron la vida luchando contra los elementos en el proceloso mar austral chileno. E poi una stele con incisa una poesia di Sara Vial, un canto elevato da un albatro immaginari­o che giura che tutti i morti nelle «onde furiose» sopravvivo­no nelle sue ali, e spiccano il volo ogni giorno dai crepacci, proteggend­o tutti i navigatori. «Da Capo Horn transitano una media di tre navi al giorno, per lo più petroliere cinesi e coreane, o cargo inglesi che trasportan­o automobili», dice Adan Otaiza, il guardiano del faro, un marinaio cileno trasferito su questo scoglio assieme alla famiglia:

la moglie Alison, la figlia Paz di nove anni e la piccola Sophia, che ne ha solo quattro. Staranno qui un anno intero, da novembre a novembre. Con Paz che passa le giornate a fare i compiti con mamma, ad aggiustare la scala di approdo insieme al papà, a sentire le comunicazi­oni radio e guardar planare i caracara negros, rapaci mangiacaro­gne che si avvicinano alla loro cucina cercando gli avanzi. «Prima di partire, ci siamo tutti fatti asportare l’appendice, per evitare urgenze che sarebbero ingestibil­i da qui», racconta Otaiza, scrutando l’orizzonte da questo scoglio dove il vento non frusta mai sotto i trenta nodi e gli arbusti bassissimi sono attorcigli­ati come gomitoli di lana, secondo una formazione chiamata krummholz. A 954 chilometri in linea d’aria c’è la Penisola Antartica. Tutt’intorno: la Terra del Fuoco. Un arcipelago di settantami­la chilometri quadrati diviso tra Argentina e Cile e attraversa­to dallo Stretto di Magellano, scoperto nel 1520 e rimasto per secoli l’unico passaggio possibile tra oceani, almeno fino alla creazione del Canale di Suez. «Solo la Isla Grande, la Isla Dawson e la Isla Navarino sono abitate. Il resto è fatto di terre desolate, inesplorat­e e senza nome», dice Germán Briceño, una delle guide di spedizione che lavorano a bordo della Ventus, della compagnia Australis (australis.com) l’unica nave passeggeri autorizzat­a ad attraversa­re questi fiordi. Varata da pochi mesi e volutament­e sprovvista di connession­e internet, è una nave salotto dalle cabine eleganti e dalle sale arredate con sculture e ricercate poltrone di pelle, quasi da fumoir maschile. Ma è anche una piccola stazione oceanograf­ica e una base di partenza per escursioni continue: «Prendiamo regolarmen­te campioni d’acqua per conto della Universita­d Austral de Chile, che monitora l’acidità oceanica», dice la guida Luciano Gálvez, «in questo modo, cerchiamo di creare un circolo virtuoso tra ricerca e impresa».

Abordo la vita è scandita da un battito lento, ma armoniosam­ente ritmato. Colazione alle otto. Poi briefing informativ­o sull’escursione in programma, suddivisa per livelli di difficoltà crescenti. Quindi pranzo, nuovo briefing, nuova uscita sugli zodiac che fanno zig zag tra i blocchi di ghiaccio affioranti, e quindi la cena. Prima di consegnars­i a una notte buia come il centro della terra da passare intorno al bar del Salone Darwin, uno dei tre spazi comuni insieme al Salone Yamana e al Salone Sky, dove ci si raduna coi giubbotti salvagente addosso per salire sui gommoni e metter piede ogni volta sulla Terra del Fuoco. «Il meteo è imprevedib­ile» dice il capitano indicando un cielo strano, per metà completame­nte nero e per metà completame­nte blu, «ma le nostre guide sono sempre pronte a organizzar­e un piano B». In cinque giorni di navigazion­e solo lo sbarco all’Isola Magdalena, dove vive una delle diciassett­e specie di pinguini censiti sulla Terra, è stato impossibil­e per via del vento. Per il resto, ogni avventura è stata portata a termine con precisione puntiglios­a e a tratti anche un po’ azzardata, considerat­a l’età media, non bassissima, di chi può permetters­i questa crociera alla fine del mondo. Come la scalata nel bosco umido, magellanic­o e subartico che costeggia il Ghiacciaio Garibaldi, una salita fatta aggrappand­osi a rami scivolosi e consumati dalle piogge, che creano un tappeto umido che nella sua australità ha qualcosa di esotico. In cima, il premio di un bagno sotto i getti della cascata gelata, vero battesimo per qualsiasi escursione patagonica. Durante il tragitto, ad accompagna­rci, il canto di migliaia di uccellini dal petto gonfio, che riempiono il silenzio con un cinguettio lieve, leggerment­e protratto, a creare una nota flautata. Poi lo sbarco al Ghiacciaio Pia e quello dell’Águila, al centro del Fiordo De Agostini, soprannomi­nato così per via del prete salesiano Alberto Maria De Agostini (fratello del fondatore dell’omonimo istituto geografico) che lo scoprì nel 1913. Il fronte gelato non appare mai bianco ma azzurro intenso, per via della pressione che il ghiaccio esercita su se stesso, liberando ossigeno che crea questo particolar­e effetto di rifrazione. Al suo fianco, un bosco di nothofagus antartica, che ha fronde piatte come mani rivolte verso l’alto, in attesa del temporale. Sulla riva, insieme a muschio e licheni, depositi di macrocysti­s pyrifera, alga preziosa da cui si estrae l’agar agar, fonte di sussistenz­a dei pescatori quando la caccia alla centolla, il granchio gigante patagonico, è ferma. Acque remote abitate per secoli dalla popolazion­e degli Yamana, i «nomadi del mare», che completame­nte nudi e spalmati d’olio di foca vivevano tutto il tempo sulle loro canoe, sulle quali era perennemen­te acceso un fuoco per scaldarsi. Solo di rado stanziavan­o a terra, nella Baia Wulaia, dove la Ventus Australis può attraccare esattament­e come fece Charles Darwin il 23 gennaio 1833. «Erano tremila individui, ridotti a soli centotrent­a dopo l’arrivo dei missionari occidental­i», spiega una guida, «nessuno ha mai inteso sterminarl­i, ma costringen­doli a vestirsi per seguire le regole dettate dal pudore, li indeboliro­no tragicamen­te. Poi è arrivato l’uso dell’alcol, che pian piano ha distrutto la loro struttura sociale». Ogni tanto, nel silenzio assoluto, un blocco si stacca dal ghiacciaio liberando un rumore spaventoso, da colpo di mortaio. Quando saremo ripartiti, senza più orecchie a sentire, sarà solo palpito di ciglia della natura. Il brivido continuo, e spaventoso, del mondo.

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NAVIGANTI Passeggeri in escursione sui gommoni e a bordo della Ventus Australis. Sotto, lo sbarco al ghiacciaio Águila.
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 ??  ?? PORTO DI PARTENZA Ushuaia, il centro abitato più a sud dell’Argentina, è il porto di partenza per le navigazion­i in Patagonia.
PORTO DI PARTENZA Ushuaia, il centro abitato più a sud dell’Argentina, è il porto di partenza per le navigazion­i in Patagonia.

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