Alessandro Greco
Il “figlio artistico” della Carrà ci raccontai consigli e le regole che gli ha dato la grande star appena scomparsa
Racconta a Sorrisi che cosa gli ha insegnato Raffaella Carrà
Basta guardarla a “Carràmba! Che sorpresa!” (che in queste settimane viene riproposto in replica su Raiuno) per rendersi conto che Raffaella Carrà era una maestra di televisione. E chi meglio del suo allievo prediletto, il suo “figlioccio artistico” come l’aveva definito lei stessa, può raccontarla in questa veste?
Abbiamo chiesto ad Alessandro Greco di portarci a lezione da Raffaella, attraversando i ricordi di una collaborazione professionale durata tanti anni e di una frequentazione personale che lo ha accompagnato fino a due settimane fa, quando purtroppo Raffaella se n’è andata nella discrezione più assoluta. «Lei non era egocentrica, autocelebrativa» spiega Greco. «Il suo approccio alla vita e alla professione era quello dei grandi, che non hanno bisogno di ostentare nulla perché brillano di luce propria. È il concetto del “passo indietro invece che tre passi avanti”».
Prima ancora che allievo lei è stato una sorta di “figlio artistico” della Carrà.
«Lei usava il termine figlioccio per riferirsi a me. E io ho sempre definito Raffaella Carrà e Sergio Japino i miei genitori televisivi. Lei, in particolare, la chiamavo la mia mammina».
Cosa le ripeteva spesso?
«Una delle prime cose che mi disse: “Il successo è instabile, precario e altalenante, è la popolarità che ti fa durare nel tempo”».
Facciamo un passo indietro: ricorda la prima volta che ha incontrato Raffaella?
«Feci un’audizione per “Furore”, ma incontrai prima Sergio Japino, Giovanni Benincasa e Fabio Di Iorio, che insieme con Raffaella firmavano il programma. Andai a Cinecittà dove era stato allestito lo studio, ma non sapevo nemmeno per quale ruolo
(ride). Quel primo incontro andò bene e il provino durò... tre mesi!».
Ci hanno pensato bene prima di prenderla...
«Già (ride). Nel primo incontro ero piaciuto, ma dal momento che nessuno mi conosceva, volevano essere sicuri che quella prima volta non fosse stata per me solo una “botta di fortuna”. Continuarono a chiamarmi, a volermi incontrare. Poi giorni dopo arrivò il momento di andare a conoscere Raffaella.
Lei era nel suo camerino dove ricordo un grande divano bianco. Io non riuscivo a guardarla in viso, rimasi in piedi impietrito: troppo forte l’emozione. Mi accolse sorridente e intenerita dalla mia agitazione e mi chiese: “Ma tu chi sei? Il provino è andato molto bene: da dove salti fuori?”».
Da dove saltava fuori?
«A quel punto lei mi aveva messo a mio agio e cominciai a raccontare dei miei oltre dieci anni di spettacoli nelle piazze, nelle serate itineranti, nelle sagre, negli stage per acconciatori, nei concorsi di bellezza, nei festival canori, nei karaoke... e pure quella volta che avevo presentato il festival delle barbe e dei baffi! Le raccontai delle difficoltà di dover conquistare ogni volta il pubblico, di guadagnare poco. A volte di non essere pagato proprio. Lì vidi in lei considerazione e rispetto. Aveva capito che nonostante i miei 25 anni di età, quello che avevano visto al provino era il risultato di tanti anni di esperienza. Non era solo una botta di fortuna, insomma».
Dalle feste di piazza a conduttore di “Furore”: un bel passaggio!
«Ma io mica avevo capito che pensavano a me come conduttore».
E cosa aveva capito?
«Per tre mesi sono stato convocato quasi tutti i giorni ma nessuno mi aveva detto esattamente perché. Io non osavo chiedere, a me già bastava trovarmi lì a fare delle prove e a partecipare alle riunioni con questi grandi maestri. Mi portavano nell’attrezzeria di Cinecittà, che Sergio aveva adibito a sala prove, mi mettevano seduto con dei figuranti che simulavano le due squadre e poi mi dicevano: “Tu che faresti?”. E io pensavo: “Forse mi stanno utilizzando per vedere come viene questo programma, poi arriverà il conduttore o la conduttrice e mi terranno come scaldapubblico”. Non ho mai chiesto niente. A me sembrava già un sogno così. Con Raffaella che mi chiamava “jukeboxino”».
Jukeboxino?
«In queste riunioni facevamo delle liste interminabili di canzoni, perché “Furore” era la festa della musica. Lei si divertiva perché quando decidevamo una canzone io la accennavo imitando la voce del cantante. Mi diceva: “Jukeboxino, ma come fai? Le sai tutte!”. Erano i miei anni di karaoke e di pianobar che venivano fuori».
Quando ha capito che il conduttore di “Furore” sarebbe stato lei?
«A pochi giorni dalla prima puntata, che andò in diretta il 16 maggio 1997. Eravamo nell’ennesima riunione in questo ufficio vicino allo studio. C’era un grande tavolo e Raffaella, di fronte a me, mi dice: “Ma tu hai capito perché continui a venire qua?”. E io: “No, ma credo che sia perché posso dare una mano”. Lei: “Ma sei proprio un testone: non l’hai capito ancora che sarai tu a condurre il programma?”. In quel momento mi sono alzato e sono scoppiato a piangere. Ci siamo abbracciati, è stato indimenticabile».
Quali consigli le ha dato? «Partiamo dal modo di comunicare: mai utilizzare doppi sensi beceri, mai l’uso di sproloquio o anche le piccole parolacce che oggi sembrano entrate nel
linguaggio comune e pure in televisione, purtroppo. E poi mi ripeteva: “La puntualità è il tuo biglietto da visita. Vuol dire rispetto, correttezza e considerazione per tutti. Dobbiamo essere speciali perché abbiamo il privilegio di entrare nelle case delle persone attraverso la televisione”. Poi un giorno mi ritrovai in un ottico di via Veneto per comprare degli occhiali da vista. Io che ci vedevo benissimo...». Come mai?
«Mi ci mandò Raffaella dicendomi: “Tu sei un bravo ragazzo. A “Furore” devi avere il ruolo di giudice imparziale, ma anche incontestabile. E siccome avrai a che fare con concorrenti famosi che sono volponi della televisione, devi evitare di farti scavalcare. Tu hai personalità ma sei giovane e per loro sconosciuto, allora dobbiamo dare autorevolezza alla tua immagine di conduttore”. E mi fece prendere degli occhiali da vista ma con le lenti neutre. Ma Raffaella si spinse anche a darmi consigli personali, riteneva che il limite tra la nostra sfera personale e quella pubblica fosse molto sottile».
Ci fa un esempio?
«Mi disse: “Non frequentare quei posti dove si perde solo tempo. Resta defilato, non essere presenzialista. E con le ragazze fai attenzione. Sei un bel ragazzo, verrai avvicinato da qualcuna che ti piace ma che magari già frequenta qualcun altro con un ruolo importante nel nostro settore: a quel punto potresti essere penalizzato sul lavoro per questo”».
E lezioni di immagine?
«Per “Furore” mi aveva affidato alla costumista Graziella Pera, che ha creato quell’immagine Anni 60 con le camicie con il collo grande fuori dalla giacca. Più in generale ricordo che Raffaella amava poco i jeans: per il conduttore, diceva, ci vuole una sorta di “divisa” che certifichi il fatto che tu sei il padrone di casa. Per questo indossavo sempre la giacca, anche quando faceva molto caldo».
Cosa non sopportava Raffaella?
«Detestava i raccomandati. Forse per questo a “Furore” lei e Sergio hanno fatto ferro e fuoco per me, hanno rischiato perché ero uno sconosciuto. Raffaella era amante del merito e del talento. Lei ti dava slancio, spazio, ti valorizzava insomma. Ma era esigente».
Quanto?
«Abnegazione, lavoro, sacrificio sono parole che le appartengono. Mi chiamò per “Il gran concerto”, il programma di intrattenimento e di divulgazione di musica classica. A quel punto ci conoscevamo già, eppure mi mise sotto. Mi raccomandò di studiare molto, non essendo oltretutto la mia materia. Dovevo essere preparato sui nomi, pronunciarli bene, conoscere i termini, la storia delle opere: quello che andavo a raccontare non dovevo solo leggerlo ma dovevo impararlo. Intendeva questo come un lavoro artigianale».
Quanto ai rituali portafortuna, ne aveva alcuni che le ha trasmesso?
«No. Ho visto qualche volta cadere una scaletta, prenderla e sbatterla tre volte a terra prima di raccoglierla. Ma niente di più».
Raffaella era devota di Padre Pio. Una cosa che vi accomunava.
«In realtà l’ho scoperto durante i funerali, non lo sapevo. Ma qui entriamo nella sfera della riservatezza di Raffaella. La fede ha un posto centrale nella mia vita e avrei voluto condividere questa cosa con lei, ma nonostante tutte le esperienze che abbiamo vissuto insieme questo non è mai venuto fuori. Mi dispiace. Padre Pio è sempre stato il mio santo del cuore, colui che ha messo in me il seme per l’amore di Dio, lei da vent’anni aveva questa mia stessa devozione: avrei voluto condividerla con lei».
Come le piacerebbe salutare Raffaella?
«Ciao Raffa, grazie per avermi donato un po’ della tua luce, della tua energia e del tuo entusiasmo. Ci vediamo lassù, a Dio piacendo. E... sai che “furore”?». ■