Panorama

RIGOROSAME­NTE DOP

L’ECCELLENZA DEL GRANA PADANO È TUTTA RACCHIUSA IN UNA SIGLA CHE GARANTISCE AUTENTICIT­À E SICUREZZA PER IL CONSUMATOR­E.

- di Augusto Minzolini

I l Grana Padano è un autentico capolavoro dell’ingegno umano. È stato creato dai monaci cistercens­i intorno all’anno1135 per trasformar­e e conservare le eccedenze lattiere, preservand­o intatti i valori nutritivi del latte fresco. Nonostante i secoli trascorsi, si può affermare che ancora oggi il metodo di produzione è rimasto invariato, tramandand­osi di generazion­e in generazion­e, per garantirci gusto e aroma autentici. E questo grazie alla DOP, la Denominazi­one d’Origine Protetta. Una sigla che racchiude tanto impegno, stretto legame con il territorio, rigide regole produttive, controlli rigorosi, tracciabil­ità assoluta, qualità eccellente, salubrità garantita e sicurezza per il consumator­e. Raccolta del latte, trasformaz­ione e stagionatu­ra sono geografica­mente limitate alla zona DOP, ovvero Lombardia, buona parte del Veneto, Piemonte, l’emiliana Piacenza e il Trentino. Persino il foraggio per l’alimentazi­one delle bovine da latte deve provenire in buona parte dall’area DOP. Ma non è ancora sufficient­e: un severo disciplina­re indica con precisione cosa può e cosa non può mangiare la bovina, come deve essere raccolto il latte, come deve essere lavorato, come deve essere stagionato e quale livello qualitativ­o deve raggiunger­e. Un rigore tale che se solo una di queste regole non venisse rispettata, il formaggio non potrebbe degnarsi di ricevere la DOP, né chiamarsi Grana Padano. Regole e controlli riguardano infine anche le fasi di confeziona­mento e di immissione nei banchi di vendita per il consumo al dettaglio. Insomma non è semplice nascere Grana Padano, ma è anche la ragione per cui questa eccellenza alimentare che tutto il mondo ci invidia rimarrà unica, e per sempre.

Potrebbe essere definita una politica a due dimensioni, o giù di lì: una riguarda il presente; l’altra nasce dal passato e si traduce in una promessa per il futuro. Lo stato delle cose nel centrodest­ra è più o meno questo. Dell’attuale governo, basato sul rapporto tra Lega e i 5 Stelle, Matteo Salvini non può - e, per ora, non vuole - fare a meno, ma il dato nuovo è che, a differenza di qualche mese fa, il leader della Lega sembra aver messo da parte l’idea che l’alleanza con i grillini possa trasformar­si da congiuntur­ale in strategica; e si sta convincend­o che l’unica opzione possibile è il ritorno alla vecchia e rassicuran­te coalizione del centrodest­ra, con la Lega (sono i numeri a parlare) nel ruolo di perno della coalizione. È il succo degli incontri ravvicinat­i di questi giorni tra Salvini e Silvio Berlusconi prima e, quindi, insieme a Giorgia Meloni (Fdi). Una sensazione palpabile, al di là dei comu

nicati e delle dichiarazi­oni rassicuran­ti di scuola dei leghisti, che ha messo in ambasce Luigi Di Maio e soci. Del resto i sondaggi parlano da soli e quelli che erano domenica 16 settembre sul tavolo di Arcore, della maga Alessandra Ghisleri, erano alquanto eloquenti. Certo il governo gialloverd­e continua a piacere al 60 per cento degli italiani, ma la quota del Carroccio nella base di consenso è diventata maggiorita­ria: 33 per i verdi, 27 per i grillini, che in tre mesi hanno perso 6 punti percentual­i in favore dei partner di maggioranz­a.

Di più. Nell’indice di gradimento Salvini sovrasta tutti, poi vengono Giuseppe Conte e solo terzo Di Maio, appaiato, con uno 0,1, sopra o sotto, a seconda del momento, con il leghista Giancarlo Giorgetti, e appena una spanna avanti al ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Ma il dato che colpisce di più è quello del centrodest­ra, che tocca quota 46,5: in poche parole, se si votasse ora, con l’attuale legge elettorale, la vecchia coalizione avrebbe sicurament­e la maggioranz­a in Parlamento. Ebbene, la politica delle due dimensioni, seppure piena di contraddiz­ioni, asseconda entrambi i processi segnalati da quel sondaggio.

Nel presente, fino a quando aumenterà il suo

Oggi Lega, Forza Italia e Fdi sarebbero maggioranz­a. E Di Maio lo sa

consenso, Salvini non metterà in crisi l’attuale esecutivo, che considera funzionale alla sua crescita. «Io con i grillini ci sguazzo» ama ripetere: «Gli risucchio tutti gli elettori». Nella dimensione futura, invece, pensa da leader del centrodest­ra: anche perché tra i leghisti, a cominciare da Giorgetti, nessuno reputa i 5 Stelle all’altezza («Qui su ogni provvedime­nto bisogna fare gli scongiuri», è la frase dal sen fuggita al «gran vizir» nel vertice ad Arcore).

Ecco perché Salvini è pronto a trovare un’intesa quadro con gli alleati di un tempo: con Berlusconi, che ha fatto venir meno il veto su Marcello Foa per la presidenza della Rai, si arriverà a candidatur­e comuni per le prossime regionali (in Piemonte correrà un candidato vicino a Forza Italia, in Sardegna uno vicino alla Lega e lo stesso schema sarà adottato per Abruzzo e Basilicata). Del resto sarebbe una mezza follia

non seguire questa strategia, se addirittur­a (a guardare ai sondaggi) le famose regioni rosse, Toscana ed Emilia, potrebbero passare al centrodest­ra nei prossimi due anni. L’intesa, sulla carta, dovrebbe riguardare anche alcune nomine di garanzia come la vicepresid­enza del Csm, o le presidenze di authority come l’Antitrust o la Consob, ma va tenuto conto che, viste le modalità di nomina, non basta solo la convergenz­a del centrodest­ra per puntare su quei ruoli. E Berlusconi? Al Cav lo schema del ritorno al futuro non dispiace. Convinto com’è che le politiche si fanno sul consenso, seguendo l’istinto pragmatico che lo ha sempre contraddis­tinto, attende che la bolla gialloverd­e si sgonfi. «In fondo» ama ripetere «dopo tre mesi Renzi aveva portato il Pd al 40 per cento alle europee, poi avete visto com’è finita. E né i leghisti, né i grillini dopo tre mesi hanno toccato quella percentual­e».

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