RIGOROSAMENTE DOP
L’ECCELLENZA DEL GRANA PADANO È TUTTA RACCHIUSA IN UNA SIGLA CHE GARANTISCE AUTENTICITÀ E SICUREZZA PER IL CONSUMATORE.
I l Grana Padano è un autentico capolavoro dell’ingegno umano. È stato creato dai monaci cistercensi intorno all’anno1135 per trasformare e conservare le eccedenze lattiere, preservando intatti i valori nutritivi del latte fresco. Nonostante i secoli trascorsi, si può affermare che ancora oggi il metodo di produzione è rimasto invariato, tramandandosi di generazione in generazione, per garantirci gusto e aroma autentici. E questo grazie alla DOP, la Denominazione d’Origine Protetta. Una sigla che racchiude tanto impegno, stretto legame con il territorio, rigide regole produttive, controlli rigorosi, tracciabilità assoluta, qualità eccellente, salubrità garantita e sicurezza per il consumatore. Raccolta del latte, trasformazione e stagionatura sono geograficamente limitate alla zona DOP, ovvero Lombardia, buona parte del Veneto, Piemonte, l’emiliana Piacenza e il Trentino. Persino il foraggio per l’alimentazione delle bovine da latte deve provenire in buona parte dall’area DOP. Ma non è ancora sufficiente: un severo disciplinare indica con precisione cosa può e cosa non può mangiare la bovina, come deve essere raccolto il latte, come deve essere lavorato, come deve essere stagionato e quale livello qualitativo deve raggiungere. Un rigore tale che se solo una di queste regole non venisse rispettata, il formaggio non potrebbe degnarsi di ricevere la DOP, né chiamarsi Grana Padano. Regole e controlli riguardano infine anche le fasi di confezionamento e di immissione nei banchi di vendita per il consumo al dettaglio. Insomma non è semplice nascere Grana Padano, ma è anche la ragione per cui questa eccellenza alimentare che tutto il mondo ci invidia rimarrà unica, e per sempre.
Potrebbe essere definita una politica a due dimensioni, o giù di lì: una riguarda il presente; l’altra nasce dal passato e si traduce in una promessa per il futuro. Lo stato delle cose nel centrodestra è più o meno questo. Dell’attuale governo, basato sul rapporto tra Lega e i 5 Stelle, Matteo Salvini non può - e, per ora, non vuole - fare a meno, ma il dato nuovo è che, a differenza di qualche mese fa, il leader della Lega sembra aver messo da parte l’idea che l’alleanza con i grillini possa trasformarsi da congiunturale in strategica; e si sta convincendo che l’unica opzione possibile è il ritorno alla vecchia e rassicurante coalizione del centrodestra, con la Lega (sono i numeri a parlare) nel ruolo di perno della coalizione. È il succo degli incontri ravvicinati di questi giorni tra Salvini e Silvio Berlusconi prima e, quindi, insieme a Giorgia Meloni (Fdi). Una sensazione palpabile, al di là dei comu
nicati e delle dichiarazioni rassicuranti di scuola dei leghisti, che ha messo in ambasce Luigi Di Maio e soci. Del resto i sondaggi parlano da soli e quelli che erano domenica 16 settembre sul tavolo di Arcore, della maga Alessandra Ghisleri, erano alquanto eloquenti. Certo il governo gialloverde continua a piacere al 60 per cento degli italiani, ma la quota del Carroccio nella base di consenso è diventata maggioritaria: 33 per i verdi, 27 per i grillini, che in tre mesi hanno perso 6 punti percentuali in favore dei partner di maggioranza.
Di più. Nell’indice di gradimento Salvini sovrasta tutti, poi vengono Giuseppe Conte e solo terzo Di Maio, appaiato, con uno 0,1, sopra o sotto, a seconda del momento, con il leghista Giancarlo Giorgetti, e appena una spanna avanti al ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Ma il dato che colpisce di più è quello del centrodestra, che tocca quota 46,5: in poche parole, se si votasse ora, con l’attuale legge elettorale, la vecchia coalizione avrebbe sicuramente la maggioranza in Parlamento. Ebbene, la politica delle due dimensioni, seppure piena di contraddizioni, asseconda entrambi i processi segnalati da quel sondaggio.
Nel presente, fino a quando aumenterà il suo
Oggi Lega, Forza Italia e Fdi sarebbero maggioranza. E Di Maio lo sa
consenso, Salvini non metterà in crisi l’attuale esecutivo, che considera funzionale alla sua crescita. «Io con i grillini ci sguazzo» ama ripetere: «Gli risucchio tutti gli elettori». Nella dimensione futura, invece, pensa da leader del centrodestra: anche perché tra i leghisti, a cominciare da Giorgetti, nessuno reputa i 5 Stelle all’altezza («Qui su ogni provvedimento bisogna fare gli scongiuri», è la frase dal sen fuggita al «gran vizir» nel vertice ad Arcore).
Ecco perché Salvini è pronto a trovare un’intesa quadro con gli alleati di un tempo: con Berlusconi, che ha fatto venir meno il veto su Marcello Foa per la presidenza della Rai, si arriverà a candidature comuni per le prossime regionali (in Piemonte correrà un candidato vicino a Forza Italia, in Sardegna uno vicino alla Lega e lo stesso schema sarà adottato per Abruzzo e Basilicata). Del resto sarebbe una mezza follia
non seguire questa strategia, se addirittura (a guardare ai sondaggi) le famose regioni rosse, Toscana ed Emilia, potrebbero passare al centrodestra nei prossimi due anni. L’intesa, sulla carta, dovrebbe riguardare anche alcune nomine di garanzia come la vicepresidenza del Csm, o le presidenze di authority come l’Antitrust o la Consob, ma va tenuto conto che, viste le modalità di nomina, non basta solo la convergenza del centrodestra per puntare su quei ruoli. E Berlusconi? Al Cav lo schema del ritorno al futuro non dispiace. Convinto com’è che le politiche si fanno sul consenso, seguendo l’istinto pragmatico che lo ha sempre contraddistinto, attende che la bolla gialloverde si sgonfi. «In fondo» ama ripetere «dopo tre mesi Renzi aveva portato il Pd al 40 per cento alle europee, poi avete visto com’è finita. E né i leghisti, né i grillini dopo tre mesi hanno toccato quella percentuale».