EDITORIALE
A PROPOSITO DI BOSSETTI, I COLPEVOLISTI E LA DIFFICILE ARTE DELLA COLTIVAZIONE DEL DUBBIO
Mi scrive una lettera accorata il lettore Giuseppe Merenda. Lo spunto è la nostra copertina su Massimo Bossetti («E se il mostro non fosse lui?»), ma anche la mia partecipazione a Porta a Porta di giovedì scorso. Dice, in sostanza, Giuseppe: perché lei difende un indifendibile? «Io che apprezzo sempre il tono, l’equilibrio e la correttezza dei suoi articoli di fondo mi chiedo perché lo fa. Perché un uomo equilibrato come lei si caccia in queste crociate vergognose in supporto di assassini spietati? Quanto è in euro il riscontro per il maggior numero di copie vendute?».
Mah. A volte me lo chiedo anch’io. In fondo, caro Giuseppe, per avere «riscontri in euro» e più copie vendute basterebbe accodarsi alla massa dei giornalisti e dei commentatori, accontentarsi, non prendere iniziative e “conformarsi” all’opinione comune, che più o meno dice: se uno è stato arrestato, e soggiorna in galera, è colpevole. Dubbi, zero. Domande, zero. Pensiero critico e autonomo, zero.
Non vado spesso in tv, anche se mi invitano. Non ci vado perché odio i pollai televisivi, dove “vince” chi urla di più. Non importa se si stia parlando degli amori di Belén o di un processo per omicidio: fondamentale è gridare, agitarsi, roteare gli occhi, darsi sulla voce. E non avere dubbi, mai. In tv tutto è bianco o è nero, mai grigio. Il programma di Bruno Vespa è uno dei pochi che si sottrae a questa logica. Ma l’altra sera, occupandosi di Bossetti, anche Vespa è stato travolto. Sembrava di essere al Processo di Biscardi, quando il mitico conduttore diceva: «Non parlate più di due o tre per volta se no a casa non capiscono». Per chi non l’avesse visto, riassumo. Tutti gli ospiti, tranne me, erano concordi su un dato: che bisogno c’è di stare a discutere del caso Yara? L’hanno capito anche i sassi che è stato Bossetti. Condannatelo, rinchiudetelo e buttate via la chiave.
Ora, cerco di spiegare a Giuseppe e ai miei lettori che io ho una fissa. Anzi due. La prima si chiama presunzione di innocenza. Ehi, lo dice la Costituzione, mica io, all’art. 27: «L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva». La seconda mia fissazione è il principio che per condannare una persona occorre che il giudice raggiunga un convincimento che vada «oltre ogni ragionevole dubbio». Attenti, anche qui, mica me lo sono inventato! Sta all’inizio dell’art. 533 del Codice penale, per chi volesse saperlo. Insomma, si tratta di una bussola con due aghi, che puntano entrambi nella stessa direzione: quella della cautela e, appunto, del dubbio. Tutto chiaro fin qui? Bene.
Nel mio mestiere, quando ci occupiamo di cronaca nera o comunque di reati, tentiamo di tenere d’occhio questa bussola. Il che significa che abbiamo grande rispetto per il lavoro dell’Accusa, ma anche per i diritti degli imputati. Un atteggiamento di imparzialità che in Italia è passato di moda da oltre vent’anni, e precisamente dalla stagione di Mani pulite, quando l’adorazione collettiva (e in larga misura giustificata, va detto) per Di Pietro e soci ha portato a una sorta di santificazione del magistrato inquirente. Di fatto, molti sono persuasi che i magistrati non sbagliano (e tanti giornalisti, consulenti e opinionisti ci marciano mica male). Invece sbagliano anche loro, come tutti.
Per sei anni, in splendida solitudine, abbiamo raccontato, con notizie e scoop, perché Amanda e Raffaele non dovevano essere condannati per l’omicidio di Meredith, e alla fine la Cassazione li ha assolti. Idem per Raniero Busco, accusato per Via Poma. Sostenevamo la stessa cosa per Olindo e Rosa, che invece hanno subito la condanna definitiva. Ma il nostro compito non è quello di assolvere o condannare, bensì di scavare e approfondire. Non mi sognerei mai di proclamare, in tv o sul giornale, che Bossetti sia innocente o colpevole (ma il discorso vale per chiunque non sia colto in flagrante). Questo lo sanno solo Dio e l’interessato. Prevedo che sarà condannato, però posso permettermi di segnalare che le prove zoppicano e gli indizi forse non bastano. E mi piacerebbe che anche altri si comportassero allo stesso modo. Ma è una battaglia difficile, perché gli interessi in gioco sono tanti, e non sempre trasparenti. E anche perché essere colpevolisti è comodo: in caso di condanna, hai avuto ragione; in caso di assoluzione, puoi sempre dire che l’imputato «l’ha scampata». L’innocenza no, quella non è mai contemplata.