Da Fassino a Veltroni, fino a Soru: così mi hanno epurato i compagni
Il papà del «Fatto», Padellaro, svela nel suo ultimo libro le minacce dell’ex leader Ds. La cacciata a mezzo stampa del dem che doveva emigrare in Africa. E l’imbarazzo di Mister Tiscali: «Non sapeva come dirmelo»
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Solo la verità lo giuro (Piemme, 192 pagine, 18,90 euro) di Antonio Padellaro, giornalista e fondatore del Fatto Quotidiano.
■ La mia prima cacciata fu anche la più bizzarra. Siamo al
Corriere della Sera, verso la fine del millennio: il giornalone versa in crisi di vendite e la nuova proprietà degli Agnelli chiama alla direzione di via Solferino Ugo Stille che, a sua volta, mi nomina capo dell’ufficio romano di corrispondenza. Stille, storica voce dall’america è un personaggio a suo modo geniale, dalla simpatia contagiosa. [...] Non apre mai la corrispondenza se avverte odore di grane. Decido di lasciare il Corriere per
L’espresso e in una lettera gli spiego, con il cuore spezzato, che mi sento costretto a questo passo soprattutto a causa degli attacchi craxiani da cui non mi sento abbastanza tutelato. Quando, trascorse un paio di settimane, mi reco a Milano per congedarmi, Stille cade, o fa finta di cadere, dalle nuvole giurando di non avere mai ricevuto alcuna missiva a mia firma. Resto convinto che subodorando qualcosa di spiacevole, quella busta se la sia prudentemente tenuta in tasca. E che, in un modo o nell’altro, mi abbia detto la verità. Senza dirmela.
All’unità, i miei contrasti con la dirigenza dei Ds, o meglio, con Piero Fassino, che era il segretario del tempo, nascevano inevitabilmente dalla rubrica quotidiana di Marco Travaglio, Bananas, dedicata alle gesta dell’arrembante Silvio Berlusconi. Ogni qualvolta Travaglio scriveva qualcosa contro Berlusconi, non in linea con qualche inciucio della sinistra, il mattino successivo, cascasse il mondo, squillava il telefono e un’apprensiva voce femminile scandiva il mio incombente destino: «Ti passo Fassino». All’inizio, non conoscendo il metabolismo fassiniano, mi sottoponevo a penose conversazioni nel corso delle quali il leader della sinistra italiana diceva le cose più sgradevoli sulla mia direzione. Schiacciato dal peso della colpa che mi ero assunto nei confronti delle masse lavoratrici e dei ceti più deboli, non proferivo parola. Poi, appresi che Fassino soffriva di pressione bassa. Quindi, appena risvegliatosi dal sonno del giusto, egli univa all’umor nero da ipotensione mattutina l’incazzatura per le ribalderie di Marco. Miscela esplosiva di cui facevo io le spese.
Escogitai un banale stratagemma. Ogniqualvolta il Fassino furioso si appalesava, comunicavo che al momento non potevo rispondere e che lo avrei richiamato. Infatti, era ciò che facevo nel pomeriggio inoltrato quando ero sicuro che la pressione si fosse ristabilita su valori accettabili. In genere, Piero rispondeva dimentico del motivo che lo aveva scatenato di buon mattino. Manifestava, anzi, una certa cordialità e alle volte si informava perfino sul mio stato di salute. Ricordava il milionario di Luci della città che di notte, ubriaco, abbracciava il vagabondo Charlot e di giorno, ritornato sobrio, lo maltrattava.
Dai e dai, però, il giochino non ha retto più finché un Fassino con la pressione regolare mi ordinò senza tanti preamboli: «Devi cacciare Travaglio». Replicai con una delle poche frasi di cui vado orgoglioso: «Fai una cosa più semplice, caccia me, così nomini un altro direttore che poi caccia Travaglio». E nel mentre lo dicevo sogghignavo: col cavolo che ti faccio ’sto favore. Infatti, consapevole del casino che ne sarebbe nato non ci provò più. Sono stato allevato, come papa Bergoglio e Mario Draghi, da quei figli di buona donna dei padri gesuiti. Che in materia battono tre a zero i salesiani da cui Fassino era stato allevato (ma pure Travaglio). Del resto, non sono pochi quelli di sinistra che sono andati a scuola dai preti. La sinistra è stata incubata dai preti (ho detto incubata, eh). A eccezione di Massimo D’alema, cresciuto in qualche gulag siberiano.
Pure lui detestava Travaglio ma non ha mai telefonato per protestare. Forse perché quando Marco era invitato alle feste dell’unità riscuoteva grande successo e riempiva i tendoni. [...] Come direttore dell’unità invitarmi alle feste era quasi obbligatorio. Poi, un giorno, in un’intervista confessai che non avevo mai votato per gli eredi del Pci. La cosa creò scompiglio ma per fortuna nessuno approfondì, altrimenti sarebbe uscito fuori che il mio voto lo avevo dato a quel semolino sciapo del fronte laico. Ai repubblicani e, una volta, perfino al Garofano di Bettino Craxi. Questo me lo tenni per me altrimenti mi avrebbero cacciato su due piedi.
Mi cacciarono lo stesso, tempo un annetto. Dopo aver cacciato Furio Colombo che aveva risollevato le sorti di un giornale fallito e senza più lettori. [...] Presi il suo posto ma dopo nemmeno un paio d’anni arrivò un nuovo editore: Renato Soru, il creatore di Tiscali, l’uomo che aveva portato Internet in Italia in una dimensione industriale, colui che aveva sbancato la Borsa. Era stato Walter Veltroni, all’apice del successo come demiurgo del Pd, a chiedergli di mettere un bel po’ di quattrini per sanare i bilanci della testata [...]. Sarà l’ex sindaco di Roma a congedarmi tramite intervista al Corriere: annunciava che avrebbe visto di buon occhio alla direzione dell’unità una donna (casualmente aveva già scelto Concita De Gregorio). Poiché non avevo intenzione di cambiare sesso, preparai gli scatoloni.
Soru venne a trovarmi perché, così disse, voleva conoscermi di persona. In realtà per cacciarmi meglio. Lui è il classico sardo muto che alterna lunghe pause a profondi silenzi. Voleva accompagnarmi alla porta ma non trovava le parole. Tergiversava illustrando faraonici progetti di rilancio nei quali, giurava, avrei avuto un ruolo strategico. Andammo a prendere un caffè, seduti a un tavolino tutto diventò più semplice. Gli dissi che consideravo concluso il mio tempo all’unità e che stavo lavorando a un nuovo progetto. Ritrovò miracolosamente la favella e, come sollevato dal nuraghe che gli pesava sullo stomaco, mancò poco che mi stringesse in un abbraccio riconoscente.