L’ultimo Carnacina, dall’expo ai libri-eredità
Il più grande maître italiano incanta a Parigi e a New York in occasione delle due Esposizioni universali. Dopo la Seconda guerra mondiale va a Malta per la sua impresa finale in un hotel. Una volta in pensione, però, non smette a lavorare e si inventa sc
■ La sceneggiatura oramai è pronta al «ciak, si gira», tra sala e cucina, ma ancora una volta le sliding doors della vita metteranno alla prova Luigi Carnacina con una nuova ed imprevista sfida. Neanche il tempo di prendere il vaporetto che lo avrebbe portato da San Marco sino al Lido delle meraviglie che a Carnacina arriva una telefonata da Roma. Oscar Bonomi, direttore generale del Turismo, vuole lui e solo lui quale responsabile del ristorante che si sta allestendo a Parigi in occasione dell’expo. Come fare a dirlo a Volpi di Misurata? «Non si preoccupi Luigi, il conte ha già dato il suo via libera, il Lido può aspettare».
È un’occasione unica «per far raggiungere, nel mondo, il primato della gastronomia italiana, ricca di molte tradizioni e possibilità». «Sembra facile» come dirà anni dopo un famoso jingle dell’omino Bialetti. Non bastano il miglior pomodoro o gli spaghetti che solo a Napoli, c’è da formare degna squadra in poche settimane. Carnacina gira l’italia per selezionare il suo dream team, con qualche asticella. Altezza minima 172 cm. Per quell’epoca non proprio un dettaglio tanto che, tra i molti episodi, anni dopo ne ricorderà uno in particolare. Tra i vari candidati ve n’era uno, irriducibile, cui purtroppo mancano quei fatali due centimetri di base. Di fronte alla negazione gentile di coach Carnacina, protesta ad alta voce: «Mi spiega come, a Parigi, ci possa andare lei, che è anche più basso di me?». C’est la vie e così sia.
Gu un successo senza precedenti. Trecento coperti a pranzo e cena, con una media di centocinquanta rinviati ad altra data, così come anche le prenotazioni telefoniche andavano bruciate in men che non si dica. La grande sala era posta al piano superiore del padiglione con l’esposizione del più variato made in Italy, ma era il ristorante stesso a essere una vetrina in diretta di quanta bellezza potesse offrire il Bel Paese. Arredi con marmo di Cararra, luci veneziane e vetrine con cristalli di Murano. Ragazze in costumi regionali, orchestra con gorgheggi napoletani, Caruso docet. La cucina a vista, diretta dal bravo Vito Cedrini. «Ci imponemmo sia presentando piatti di gran lusso, sfidando i francesi a casa loro, sia con piatti della cucina popolare, dalla pasta e fagioli all’ossobuco». Innumerevoli gli attestati di stima la cui sintesi era: «Ci avete fatto provare un po’ di Italia, la sua gioia di vivere. Grazie per averla trasferita per alcuni mesi qui, sulle rive della Senna».
In realtà pochi sapevano quale impegno avesse richiesto questa missione. Per sette mesi, da maggio a novembre, ogni mattina Carnacina si recava all’aeroporto di Orly con il suo carico di frutta e verdura e scampi appena pescati dall’adriatico. Ma ne valse la pena, anche perché, poi, a Parigi sorsero diversi ristoranti di cucina italiana che prima non esistevano. Nelle cronache del tempo due firme per tutti. Paolo Monelli scrisse: «Luigi Carnacina è l’ambasciatore della cucina italiana, questa è la diplomazia che preferiamo»; Luigi Barzini jr: «Quello dell’expo è il prototipo platonico di tutti i ristoranti italiani nel mondo». Neanche il tempo di recuperare le forze, pur sulle placide rive del Lido di Venezia, che arriva la chiamata al raddoppio: l’expo di New York 1939. Squadra che vince non si cambia, chef Vito Cedrini in testa, ma si aggiungono altre sfide, oltre a quella di andare all’aeroporto per il carico quotidiano che solca l’atlantico. Stavolta i coperti sono diventati 400, più di un migliaio gli avventori da soddisfare al bar, ogni giorno. Il buffet d’esordio ha 5.000 partecipanti. C’è da sfiancare un elefante, ma Luigi Carnacina ha una tempra pronta ad affrontare nuove sfide, anche impreviste.
Lo corteggia Generoso Pope, un magnate del tempo. Di origini campane, aveva fatto fortuna nel campo dell’edilizia. Suoi, tra gli altri, i cantieri del Rockfeller Center come dell’empire State Building. Per non annoiarsi era diventato il magnate della stampa italiana negli States. In questa logica di diversificazione imprenditoriale, voleva creare una rete di ristoranti made in Italy e aveva individuato in Carnacina la figura ideale. Il gentile diniego raddoppiò con un’azienda locale di gin. Lo volevano barman per una ripresa, regista di un drink nel quale era messa in bella evidenza l’etichetta della bevanda yankee. Non importava quale fosse la cifra in ballo, ogni suo desiderio sarebbe stato esaudito. La risposta servita sul piatto: «Il mio desiderio è molto semplice. È necessario far propaganda perché gli americani bevano più vino durante i loro pasti, anche se a scapito di un buon gin». Quando l’etica professionale, e l’amor patrio conseguente, non fanno sconti. A nessuno.
Uno si chiede quale sia mai la spinta interiore che, in questi vari capitoli di vita, abbia sostenuto lo spirito di Luigi Carnacina. Lo dice lui stesso nel bellissimo libro in cui trasmette le sue memorie. «Mi ha ispirato Jean-baptiste Coirot:
“Io sogno il mio quadro, poi dipingo il mio sogno”». Tradotto: «Nella mia vita ho sognato vivande di vario genere e le ho poi descritte allo chef perché le realizzasse dal vero». Viene in mente il dripping di pesce di Gualtiero Marchesi ispirato a Jackson Pollock. Carnacina sentiva un fuoco dentro di sé, che non lo ha mai abbandonato: «Ho sempre amato il mio mestiere come fonte di soddisfazioni morali più che come soddisfazione commerciale».
Un’intera vita a conferma, anche quando i mala tempora appaiono dietro l’angolo con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Starà prima a Rimini e poi all’hotel Baglioni di Bologna. Nel 1943 pubblica alcune sue ricette su Il Resto del Carlino «perché le massaie italiane potessero approfittare della mia esperienza per risolvere i loro quotidiani problemi culinari». Torna in famiglia, a Roma. Vengono a sapere di lui, cittadino del mondo, le truppe del Führer, che hanno bisogno di un interprete per gestire il rapporto tra i loro circoli ufficiali e i servizi conseguenti, in questo caso alberghieri. Convocato per la bisogna, Carnacina finge di non capirne molto e farfuglia balbettando poche e scombicchierate frasi a dimensione crucca. Scartato. Arrivano le truppe yankee. Medesima convocazione. Gli occhi di Luigi brillano: arruolato seduta stante. Nella ricostruzione del dopoguerra, contribuisce a riavviare due luoghi storici di quella che sarà la dolce vita romana, la Casina delle Rose, a Villa Borghese, e Casina Valadier, al Pincio.
È tempo di tirare le somme. Di battaglie ne ha combattute molte, tutte vinte con pieno merito. Trascorre alcuni mesi in Belgio, presso la famiglia della sua amata Germaine, moglie e compagna di una vita. Ma al Dna non si comanda. «Il pensiero, appena sveglio, di non dover pensare a niente mi creava un vuoto attorno. Ero esasperato dalla calma della vita privata che cominciava a soffocarmi in un cerchio di spietata noia». Ha oramai 64 anni, ma lo spirito indomito del ventenne di sempre.
Nel 1952 l’ultima sfida, l’hotel Phoenicia di Malta, di proprietà di una nobile famiglia inglese. Trecentottanta dipendenti. Quattro anni e mezzo di impegno, ma il nostro non cesserà di stupire. Nel 1956, a 68 anni, appende per sempre la marsina al chiodo, ma andrà in pensione solo da maître per una vita, risorgendo come scrittore, autore di svariati testi, su tutti La grande cucina con migliaia di ricette sedimentate negli anni, anche se l’esordio fu con A’ la carte, memorie di una vita, pubblicato con un esordiente editore di belle speranze, un certo Luigi «Gino» Veronelli. Seguiranno molti titoli, spesso con la benedizione introduttiva di un altro gigante del novecento, Mario Soldati. Una vita da film, passando per la cucina.
Nel 1943 fa pubblicare ricette sui giornali «così aiuto le massaie a risolvere problemi»
Negli States viene corteggiato da un imprenditore per vendere gin