Proteste figlie della manipolazione
Le manifestazioni contro l’evento di Roma sono colpa della cultura per cui la maternità è una disgrazia. I responsabili non sono solo i giovani ma la furia politicamente corretta
■ Dobbiamo interrogarci, tutti noi adulti, a qualsiasi categoria - sociale, culturale, politica, religiosa - apparteniamo: che cosa può spingere a organizzare una manifestazione contro un convegno che cerca di interrogarsi e, magari, trovare soluzioni per porre un freno al dramma indiscusso del nostro Paese, la denatalità? In Italia, ormai da decenni, il trend socioculturale viaggia spedito sul binario del «non fare più figli», con tutte le conseguenze nefaste che ne conseguono. E chiunque è dotato di un minimo di raziocinio lo riconosce, con toni a dir poco preoccupati. Tutto va in crisi se non vengono al mondo nuovi figli, nuovi cittadini, nuove forze pensanti e operanti: tutto si ferma, tutto muore! Inaccettabile cavarsela imputando a quattro o dieci facinorosi dei centri sociali la responsabilità di quegli atti privi di qualsiasi buon senso. La domanda deve essere un’altra e deve coinvolge l’intera nostra società, tutto quel mondo degli adulti che oggi detiene il potere sociale, economico, culturale e politico, e che dovrebbe indicare le strade della speranza e del bene comune, aprendo alla bellezza della vita e del dono incommensurabile del «mettere al mondo un figlio».
Perché manifestare contro la natalità? Perché urlare contro la nascita di un bimbo in più, in questo nostro Paese surgelato nel freezer della morte demografica? Chi ha indottrinato in modo così devastante il cervello dei giovani, facendoli convinti che la libertà della donna sta nel decidere di abortire e non nel decidere di avere un figlio? Chi ha manipolato così atrocemente la natura umana che percepisce la riproduzione come uno degli scopi più importanti per l’esistenza - al punto da convincere che fare figli o è da «sfigati» o è da cattofascisti? Chi ha ideologizzato la maternità così da renderla una sciagura, incompatibile con la dignità e l’emancipazione della donna? Ogni giorno la tv ci invia messaggi, allarmanti e allarmati, sul fatto che è dovere civile proteggere e difendere il pianeta, le api, gli orsi del Trentino, financo le balene del Mare del Nord (decisamente molto poco accessibile per chi vive in Italia) e se qualcuno di buona volontà organizza un confronto di idee per incentivare e promuovere le nascite, diventa automaticamente un reazionario che odia le donne. Si possono avere opinioni diverse, certamente, ma un aspetto non può essere dimenticato: promuovere il mantenimento della specie (per dirla secondo evoluzione, che non amo!) è semplicemente un fatto di natura, mentre opporvisi è solo ed esclusivamente un fatto di ideologia o meglio di indottrinamento ideologico. La libertà di scelta, quella con la «L» maiuscola, sta nell’accogliere la vita, non nel negarla o reprimerla. Il grado di civiltà di un popolo si misura sull’accoglienza della vita, accoglienza coraggiosa e generosa, che non discrimina in base a criteri di convenienza o di profitto. Personale o sociale. E una società civile, prima di legalizzare percorsi di morte, costruisce percorsi di vita, che evitano alla donna di dover scegliere fra una maternità e un posto di lavoro, assicurando le condizioni perché entrambi i diritti possano essere tutelati.
Chi ci perde se nasce in Italia un bambino di più? Greenpeace raccoglie fondi per salvare animali e insetti in pericolo di estinzione, e non dovrebbe uno Stato, civile e laico, istituire fondi o prevedere fiscalità speciali per sostenere la maternità e incrementare le nascite? Stiamo vivendo l’assurdo di una «green economy» quantomeno strabica: mentre da un lato - correttamente - si pone il problema della salute del pianeta, dall’altro diventa molto poco operativa e attenta al problema del suicidio demografico, forse non di tutti, ma certamente del nostro Paese. Dunque, non prendiamocela più di tanto con quei poveri ragazzi: non sono altro che il «prodotto» della nostra cultura («Strumenti ciechi di occhiuta rapina», direbbe il Giusti), che ha cancellato perfino il semplice buon senso, soffocandolo nell’ideologia del politicamente corretto. Oggi - spero tanto che mi si dimostri il contrario - essere controcorrente, anticonformisti (anelito tipico della giovinezza e della gioventù) vuol dire difendere e promuovere la vita, la procreazione generosa e coraggiosa, la ricchezza di un bimbo in braccio. Nel famoso romanzo Guerra e Pace, Tolstoj volendo descrivere la scellerata decisione di Napoleone di invadere la Russia, utilizza la storica frase «Quos Deus vult perdere, dementat». Forse - guardiamoci attorno - è proprio ciò che sta accadendo ai nostri giorni.