La Consulta dà agli stranieri le case popolari
I giudici, dopo la legge lombarda, smontano la norma del Veneto sui 5 anni di residenza in regione per accedere alle graduatorie Agli immigrati basterà «un percorso di inclusione». Così, tra numero di figli e parametri Isee, per gli italiani mancheranno a
■ Un cittadino venezuelano, con lo status di rifugiato, e una cittadina camerunense con permesso per protezione internazionale, hanno tutti i requisiti per accedere all’edilizia residenziale pubblica (Erp) della Regione Veneto, che ne limita l’assegnazione se non si risiede nel territorio da almeno 5 anni. È un’altra sentenza pro migranti, quella della Corte costituzionale depositata ieri.
Il presidente della Consulta, Augusto Barbera, ha ritenuto che il requisito della residenza prolungata in una regione non presenta alcuna ragionevole correlazione con il soddisfacimento dell’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di bisogno. Poco importa, dunque, se la legge veneta del 2017 sia stata applicata per anni «discriminando» cittadini che non avevano i requisiti di inclusione richiesti per partecipare a un bando di assegnazione, mentre adesso viene messa all’indice solo dopo che l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), diventata associazione di promozione sociale, è intervenuta in sostegno dei due migranti.la Corte bacchetta il legislatore veneto, che «continua a rifarsi a un criterio di pregressa residenza prolungata nel territorio regionale - privo di alcuna correlazione con lo stato di bisogno e insensibile alla condizione di chi è costretto a muoversi proprio per effetto della sua condizione di fragilità economica». Allora togliamo anche il requisito della residenza e apriamo le porte di casa a chiunque, sbattendole in faccia ai veneti in emergenza abitativa che aspettano da anni di poter entrare in un alloggio popolare, con un canone di locazione inferiore a quello del mercato degli affitti. Questione sollevata pure dal governatore Luca Zaia: «Non posso non notare che per la proprietà transitiva questa sentenza potrebbe far sì che i cittadini italiani o gli stranieri residenti da almeno cinque anni in Italia avranno gli stessi diritti, a parità di condizione e di requisiti, di chi magari non ha un progetto di vita e chiede semplicemente un alloggio, quasi fosse un ostello, per poi trasferirsi altrove», ha commentato.
Il 26 settembre scorso si era costituita in giudizio la Regione Veneto, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni sollevate dal Tribunale di Padova, seconda sezione civile, sulla legittimità costituzionale della legge regionale veneta nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni». Il presidente Zaia non ritiene la norma «una legge che esclude, tutt’altro: è stata voluta per favorire inclusione e senso di comunità». Però come base per lo sviluppo di un progetto di vita, per chi vuole mettere radici, non per «chi la usa come mera sistemazione in attesa di muovere verso altri territori e altri progetti».
Curiosamente, la Corte evidenzia che «non è dalla pregressa permanenza in una regione che è dato inferire una simile prospettiva di radicamento» e cita a riguardo altre sentenze, «poiché, viceversa, conta principalmente che sia stato avviato un percorso di inclusione nel contesto ordinamentale statale». Importa poco che un migrante risieda da due mesi o da cinque anni, è più importante il suo «percorso di inclusione», non ben identificato ma che tira in ballo la necessità di prevedere «centri di accoglienza, adeguati al rispetto della dignità umana». E sostiene di non aver escluso che «in sede di formazione delle graduatorie, sia possibile valorizzare indici ragionevolmente idonei “a fondare una prognosi di stanzialità” […] purché compatibili con lo stato di bisogno e, dunque, tali da non privarlo di rilievo». Tradotto per gli abitanti del Veneto, ma anche di ogni altra regione, le famiglie in graduatoria da anni grazie al numero di figli e ai parametri Isee saranno sorpassate da un migrante arrivato da poco, però con necessità ritenute più importanti.
I giudici ricordano che il secondo comma dell’articolo 2 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Ma nel ritenere i cinque anni di residenza una condizione «del tutto dissociata» dallo stato di bisogno di chi vuole accedere alle case Erp, e che vìola i principi di uguaglianza tra chi può dimostrare o no di possederla, carica la questione facendo riferimento a «tratti discriminatori» nei confronti degli stranieri. I cittadini italiani in attesa di casa, invece, come si dovrebbero sentire?
Accadde la stessa cosa nel 2020, quando la Corte costituzionale ritenne «fonte di una discriminazione irragionevole», la norma della Regione Lombardia che poneva il requisito di cinque anni di residenza, o di svolgimento di attività lavorativa, per accedere ai servizi abitativi. Anche allora, ricorso presentato non da un italiano bensì da un cittadino tunisino
Perché, invece, le toghe non si appellano alla Consulta a proposito dei requisiti per accedere all’assegno di inclusione? Gli italiani che hanno lavorato e vissuto all’estero, ma che per loro sfortuna si ritrovano in difficoltà economiche, non possono accedere alla misura di sostegno se non risultano residenti in questo Paese negli ultimi cinque anni. Dieci anni, imponeva il precedente reddito di cittadinanza. Italiani di serie B, cittadini che dovrebbero aspettare un quinquennio senza aiuti, concessi invece a quanti provengono da Paesi Terzi e ottengono permesso di soggiorno o status di protezione internazionale.