La Verità (Italia)

La Consulta dà agli stranieri le case popolari

I giudici, dopo la legge lombarda, smontano la norma del Veneto sui 5 anni di residenza in regione per accedere alle graduatori­e Agli immigrati basterà «un percorso di inclusione». Così, tra numero di figli e parametri Isee, per gli italiani mancherann­o a

- Di PATRIZIA FLODER REITTER

■ Un cittadino venezuelan­o, con lo status di rifugiato, e una cittadina camerunens­e con permesso per protezione internazio­nale, hanno tutti i requisiti per accedere all’edilizia residenzia­le pubblica (Erp) della Regione Veneto, che ne limita l’assegnazio­ne se non si risiede nel territorio da almeno 5 anni. È un’altra sentenza pro migranti, quella della Corte costituzio­nale depositata ieri.

Il presidente della Consulta, Augusto Barbera, ha ritenuto che il requisito della residenza prolungata in una regione non presenta alcuna ragionevol­e correlazio­ne con il soddisfaci­mento dell’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di bisogno. Poco importa, dunque, se la legge veneta del 2017 sia stata applicata per anni «discrimina­ndo» cittadini che non avevano i requisiti di inclusione richiesti per partecipar­e a un bando di assegnazio­ne, mentre adesso viene messa all’indice solo dopo che l’associazio­ne per gli studi giuridici sull’immigrazio­ne (Asgi), diventata associazio­ne di promozione sociale, è intervenut­a in sostegno dei due migranti.la Corte bacchetta il legislator­e veneto, che «continua a rifarsi a un criterio di pregressa residenza prolungata nel territorio regionale - privo di alcuna correlazio­ne con lo stato di bisogno e insensibil­e alla condizione di chi è costretto a muoversi proprio per effetto della sua condizione di fragilità economica». Allora togliamo anche il requisito della residenza e apriamo le porte di casa a chiunque, sbattendol­e in faccia ai veneti in emergenza abitativa che aspettano da anni di poter entrare in un alloggio popolare, con un canone di locazione inferiore a quello del mercato degli affitti. Questione sollevata pure dal governator­e Luca Zaia: «Non posso non notare che per la proprietà transitiva questa sentenza potrebbe far sì che i cittadini italiani o gli stranieri residenti da almeno cinque anni in Italia avranno gli stessi diritti, a parità di condizione e di requisiti, di chi magari non ha un progetto di vita e chiede sempliceme­nte un alloggio, quasi fosse un ostello, per poi trasferirs­i altrove», ha commentato.

Il 26 settembre scorso si era costituita in giudizio la Regione Veneto, eccependo l’inammissib­ilità e la non fondatezza delle questioni sollevate dal Tribunale di Padova, seconda sezione civile, sulla legittimit­à costituzio­nale della legge regionale veneta nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l’accesso all’edilizia residenzia­le pubblica, quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutiv­i e calcolati negli ultimi dieci anni». Il presidente Zaia non ritiene la norma «una legge che esclude, tutt’altro: è stata voluta per favorire inclusione e senso di comunità». Però come base per lo sviluppo di un progetto di vita, per chi vuole mettere radici, non per «chi la usa come mera sistemazio­ne in attesa di muovere verso altri territori e altri progetti».

Curiosamen­te, la Corte evidenzia che «non è dalla pregressa permanenza in una regione che è dato inferire una simile prospettiv­a di radicament­o» e cita a riguardo altre sentenze, «poiché, viceversa, conta principalm­ente che sia stato avviato un percorso di inclusione nel contesto ordinament­ale statale». Importa poco che un migrante risieda da due mesi o da cinque anni, è più importante il suo «percorso di inclusione», non ben identifica­to ma che tira in ballo la necessità di prevedere «centri di accoglienz­a, adeguati al rispetto della dignità umana». E sostiene di non aver escluso che «in sede di formazione delle graduatori­e, sia possibile valorizzar­e indici ragionevol­mente idonei “a fondare una prognosi di stanzialit­à” […] purché compatibil­i con lo stato di bisogno e, dunque, tali da non privarlo di rilievo». Tradotto per gli abitanti del Veneto, ma anche di ogni altra regione, le famiglie in graduatori­a da anni grazie al numero di figli e ai parametri Isee saranno sorpassate da un migrante arrivato da poco, però con necessità ritenute più importanti.

I giudici ricordano che il secondo comma dell’articolo 2 della Costituzio­ne affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianz­a dei cittadini, impediscon­o il pieno sviluppo della persona umana». Ma nel ritenere i cinque anni di residenza una condizione «del tutto dissociata» dallo stato di bisogno di chi vuole accedere alle case Erp, e che vìola i principi di uguaglianz­a tra chi può dimostrare o no di possederla, carica la questione facendo riferiment­o a «tratti discrimina­tori» nei confronti degli stranieri. I cittadini italiani in attesa di casa, invece, come si dovrebbero sentire?

Accadde la stessa cosa nel 2020, quando la Corte costituzio­nale ritenne «fonte di una discrimina­zione irragionev­ole», la norma della Regione Lombardia che poneva il requisito di cinque anni di residenza, o di svolgiment­o di attività lavorativa, per accedere ai servizi abitativi. Anche allora, ricorso presentato non da un italiano bensì da un cittadino tunisino

Perché, invece, le toghe non si appellano alla Consulta a proposito dei requisiti per accedere all’assegno di inclusione? Gli italiani che hanno lavorato e vissuto all’estero, ma che per loro sfortuna si ritrovano in difficoltà economiche, non possono accedere alla misura di sostegno se non risultano residenti in questo Paese negli ultimi cinque anni. Dieci anni, imponeva il precedente reddito di cittadinan­za. Italiani di serie B, cittadini che dovrebbero aspettare un quinquenni­o senza aiuti, concessi invece a quanti provengono da Paesi Terzi e ottengono permesso di soggiorno o status di protezione internazio­nale.

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