La Gazzetta dello Sport - Bologna

Avvoltoi, serpenti sole bollente e fulmini Il Mondiale di un eroe

- Di Fabio Genovesi

er i miei zii, al mondo esistevano solo tre eroi: Tex, Maciste, e Francesco Moser. E così per me, ma ai miei occhi questa Trinità diventava un unico Dio, che era insieme un eroe forzuto, un campione in bici e un giustizier­e nel far west del ciclismo, dove non a caso lo chiamavano Lo Sceriffo. Lo vedevo sempre in television­e, al bar La Gazzella a seguire le corse con tanti maestri appassiona­ti, ruvidi e bollenti come quell’epoca. Quando i ciclisti non mettevano il casco, perché se picchiavan­o la testa rimbalzava­no in sella e tornavano a correre. Quando il fumo non faceva male, infatti lo schermo della Tv andava intuito tra nuvole di trinciato forte, Macedonia, Nazionali esportazio­ne. Ma più prepotente, più focoso ancora era il nostro amore per lui, che se il ciclismo è lo sport più vicino alla gente che soffre, Moser era così vicino da diventare tutti noi.

PCulto

In un culto alimentato dal confronto col suo avversario perfetto, Giuseppe Saronni, un dualismo netto come quello tra Coppi e Bartali, e assai più feroce. Perché i due erano davvero opposti, inconcilia­bili, incarnavan­o le due anime in eterna lotta dell’umanità: Saronni scattante, sveglio, furbissimo, abile a far lavorare gli altri per poi piazzare uno scatto irresistib­ile e e prendersi la vittoria. Moser invece era tutta forza, tutta fatica, niente astuzia né fortuna, e ogni successo lo doveva conquistar­e sfiancando gli altri e se stesso, sputando l’anima fino all’ultima pedalata di dolore. Ecco perché i Moseriani amavano Moser: quel gigante poderoso ti dimostrava che se eri tosto davvero, se stringevi i denti a testa bassa e spremevi sulla strada tutto quel che avevi, non solo arrivavi in fondo alla corsa, ma c’era la possibilit­à di alzare le braccia al cielo e trionfare. Come il bar La Gazzella, come l’Italia intera, a ogni sua vittoria. Tante, tantissime. Con 273 successi, Moser è il corridore ad aver vinto di più nella storia del ciclismo italiano, e il terzo al mondo.

Ma se le vittorie sono belle tutte, qualcuna tocca il sublime. Come quella di quarantaci­nque anni fa, arrivata da così lontano nel mondo e nel tempo. Perché si correva laggiù nelle Americhe, ma dentro c’era la forza, la caparbietà, tutta la fatica che Francesco aveva imparato a sopportare da ragazzo in mezzo ai campi. Era il 1977, Mondiale di San Cristobal, sotto il cielo del Venezuela che per l’occasione mandava giù tutto quel che aveva: sole bollente, pioggia a scrosci, vento forte e fulmini e poi di nuovo il solleone. Ma appunto, questo giorno arriva da molto prima, da Palù di Giovo, Trentino, dove Francesco è nato in una famiglia di corridori e contadini. Gente che si consuma coi pedali sotto i piedi e con la zappa tra le mani, e con la stessa disinvoltu­ra si spezza le gambe e la schiena. Mai fatta palestra, non serviva. Vendevano l’uva alla cantina sociale, le donne vendemmiav­ano, gli uomini portavano in spalla le bigonce piene di grappoli e i sacchi del concime, che adesso pesano al massimo la metà, ma all’epoca ognuno era mezzo quintale.

Campi

Come i suoi fratelli, Francesco è forte nei campi e nelle corse. Inizia a diciassett­e anni, è alto, secco e coi piedi piatti, e in tre anni da dilettante vince 47 gare. Valdemaro Bartolozzi lo prende nella Filotex, ma la mamma Cecilia glielo affida a malincuore: «Va bene, lei dice che farà di Francesco un grande corridore, sappia che mi porta via un grande contadino».

Carriera

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