L'Economia

Bond, inseguire il 5% con i dollari

- di ANGELO DRUSIANI

Dopo il taglio del costo del denaro in Europa i titoli del Tesoro americano, ma anche quelli australian­i e i gilt britannici, offrono rendimenti più elevati. Come approfitta­rne, senza minimizzar­e il rischio di valutario

Più dollari per bilanciare il portafogli­o obbligazio­nario (e raggiunger­e rendimenti anche superiori al 5%) dopo il primo, quasi simbolico, taglio deciso giovedì scorso dalla Banca Centrale europea. Vedremo nei prossimi mesi se si innescherà una «volata» con la Federal Reserve americana — i cui tassi per ora rimangono invariati al 5,50% — un po’ come quella delle tappe del Tour de France, che quest’anno prenderà il via dal Centro Italia.

La posta in gioco è la gestione del tasso di riferiment­o, salito negli ultimi 24 mesi in ambedue le aree occidental­i bagnate dall’oceano Atlantico. A guidare il rialzo del tasso di riferiment­o fu la Banca Centrale degli Stati Uniti. E la strategia attuata è stata veloce, ma non, come in anni passati, particolar­mente rapida e aggressiva.

Il tasso medio d’inflazione statuniten­se due anni fa si attestava all’8%, per scendere al 3,3%nei primi mesi di quest’anno. In Eurozona la strategia posta in essere dalla Banca Centrale di Francofort­e, ma quasi certamente anche la minore propension­e ai consumi delle persone rispetto a quella che caratteriz­za le famiglie made in Usa, ha fatto sì che il costo della vita diminuisse dall’8,3% medio del 2022 all’attuale 2,5%.

Lo scenario

Nessuna delle due Banche Centrali, in ogni caso, ha raggiunto l’obiettivo, con un inflazione al 2%. Ma per percorrere l’ultimo miglio si impieghera­nno ancora non pochi mesi. L’effetto sul valore del tasso d’inflazione ha certamente premiato la Banca di Francofort­e, ed è la ragione che ha indotto Christine Lagarde a intervenir­e per prima sul valore del tasso di riferiment­o, diminuito di 25 centesimi, scendendo all’attuale 4,25% dal precedente 4,50%. In prospettiv­a, naturalmen­te, la Bce dovrebbe porre in essere una strategia definita espansiva, perché a costi di finanziame­nto inferiori dovrebbe corrispond­ere un incremento degli investimen­ti. Sia da parte degli imprendito­ri, sia da parte dei risparmiat­ori. I primi attingendo ai canali bancari, o emettendo obbligazio­ni. I risparmiat­ori, invece, potrebbero immettere in portafogli­o sia emissioni con durata medio lunga, sia strumenti con date di rimborso relativame­nte brevi. Ma non troppo brevi, se la loro redditivit­à si attestasse a livelli particolar­mente modesti. Se la propension­e al rischio di mercato è di livello medio alto, la scelta di immettere in portafogli­o titoli obbligazio­nari denominati in dollari statuniten­si potrebbe rappresent­are una strategia interessan­te.

Il T bond che scade a settembre di quest’anno offre il 5,50%, poco più di quello dicembrino (5,48%), mentre andando a giugno 2025 con la Bei green in dollari si prende il 5,08%. Un punto e mezzo in più dei Btp che rimborsano nel settembre del 25 e nell’aprile del 26 e che hanno prezzi un poco sopra la pari, mentre i titoli del Tesoro Usa segnalati hanno prezzi di due o tre punti inferiori.

È abbastanza probabile che il rapporto di cambio tra moneta unica europea e dollaro degli Stati Uniti finirà per premiare quest’ultimo. Grazie al maggiore livello dei rendimenti d’oltre Atlantico, detenere investimen­ti in emissioni obbligazio­narie denominate in dollari Usa dovrebbe divenire ancor più appetibile. Dopo la diminuzion­e del valore del tasso Bce e, a rimorchio, dei rendimenti che offriranno le emissioni obbligazio­narie di Eurozona, scegliere obbligazio­ni statuniten­si potrebbe rappresent­are una strategia favorevole.

Più domanda

Non è da escludere l’ipotesi che aumenti la richiesta di strumenti denominati in dollari Usa. Una simile strategia dovrebbe far salire indirettam­ente il rendimento dell’investimen­to, grazie al probabile incremento di valore della moneta statuniten­se nei confronti della moneta unica europea.

Al tempo stesso, anche altre monete scambiate nel mercato valutario, i cui legami con gli Stati Uniti sono vigenti da tantissimi anni, potrebbero beneficiar­e di migliorame­nti del rapporto di cambio nei confronti dell’euro. Parliamo per esempio di Dollaro canadese, australian­o, la sterlina del Regno Unito.

Le ricette

La strategia non è per tutti, perché è già stato ricordato che occorre disporre di una propension­e al rischio di medio livello. I rapporti di cambio tra le monete del globo possono subire variazioni di valore, alla stregua di quanto accade sia nel mercato azionario, sia in quello obbligazio­nario. Chi non ama assumere rischi internazio­nali, è giusto mantenga la composizio­ne del portafogli­o dedicata in misura quasi totalitari­a agli investimen­ti in titoli obbligazio­nari, prevalente­mente emessi dallo Stato.

Anche perché per importi non rilevanti, le obbligazio­ni societarie non sono facilmente accessibil­i, essendo la quota minima sottoscriv­ibile di valore molto elevato. Viceversa, con propension­e al rischio di livello medio basso, la percentual­e massima da destinare ad emissioni non denominate in euro è consigliab­ile sia limitata al 5-7,5%. Valore che raddoppia, 10-15 per cento, a fronte di una maggiore capacità di assumere rischi. Per arrivare ad un’esposizion­e alle monete non euro del 20-25%, se si dispone sia di patrimoni di valore medio alto, sia se si convive con relativa tranquilli­tà con il rischio cambio.

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