SINDROME GIAPPONESE CE L’ABBIAMO GIÀ
NON SOLO PER IL DEBITO ANCHE IL CAPITALE UMANO...
Il cattivo utilizzo del lavoro femminile è tra le cause della fine del miracolo economico
Lo scoppio della Bolla del 1991 ha fatto il resto, sancendo la crescita del precariato tra i più giovani
Negli anni Ottanta Giappone era sinonimo di tecnologia e innovazione. Quando il giovane Bill Emmott arriva a Tokyo, nuovo corrispondente de L’economist, si porta appresso un libro del sociologo Ezra Vogel, Japan as Number One, comprensibilmente popolare nel Paese del Sol Levante. Dal 1952 al 1991, il tasso di crescita del Pil in termini reali è stato in media del 6,8% l’anno. Nel 1991, il Pil giapponese era tredici volte il valore del 1952: nello stesso periodo, il Pil americano, per intenderci, era «soltanto» triplicato.
Si è parlato a lungo di miracolo economico giapponese. Alcuni lo attribuivano al Miti, il ministero per il commercio internazionale e l’industria che avrebbe orientato lo sviluppo del Paese, decidendo su quali settori industriali puntare. Dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale, che avevano drasticamente ridotto lo stock di capitale fisico, il Giappone fu protagonista di uno slancio straordinario, che ne fece in breve tempo una potenza industriale. Il «miracolo giapponese» del resto era trainato da una forte crescita degli investimenti: contavano per circa il 17% del Pil negli anni cinquanta e crebbero fino al 30,5% negli anni Settanta. Un tale aumento degli investimenti privati, si ragionava, doveva avere per forza alle spalle una regia pubblica. Altri sottolineano come esso derivasse da una robusta crescita del risparmio privato, agevolata da una tassazione molto più leggera: con una imposta sul capital gain pari a zero e basse tasse su dividendi, il disegno del sistema fiscale aiutava la crescita, agevolando la trasformazione del risparmio in capitali a servizio del settore produttivo.
Il cambio
Dagli anni Novanta ad oggi, però, tutto è cambiato. L’economia giapponese è caratterizzata più dalla senescenza che dall’innovazione. Il debito pubblico è molto elevato (il 236% del Pil) e la società giapponese è fra le più «grigie» al mondo. Nel 1990 in tutto il Giappone c’erano 2700 ultracentenari: oggi sono 70 mila. La popolazione è in decrescita: se fra la fine della guerra e gli anni Novanta era aumentata del 70%, da 71 milioni a 123, dal picco di 128 milioni di abitanti nel 2010 oggi i giapponesi sono arrivati ad essere 126 milioni. L’invecchiamento della popolazione è un segnale di successo e il Giappone può vantare una quota rilevante (un quarto) degli ultrasessantacinquenni che ancora fanno parte della popolazione attiva.
Il peso dello Stato è tuttora più contenuto che altrove (la spesa pubblica vale il 39% del Pil, le entrate fiscali il 31%) ma una società così vecchia non può, naturalmente, avere il dinamismo di Paesi più giovani: la voglia di fare, la crescita di nuovi consumi, che una diversa composizione demografica tende a creare. Il Giappone appare a molti, in Europa, una sorta di modello. I sovranisti ricordano che l’elevatissimo debito pubblico appare «sostenibile», perché nelle mani di investitori domestici. I tecnocrati osservano con interesse il Paese che per primo ha praticato il quantitative easing, con la Banca centrale che sin dall’inizio degli anni duemila compra titoli pubblici. Gli uni e gli altri dovrebbero riflettere però sul fatto che la crescita langue e che nel corso di una generazione il «Giappone numero uno» è diventato il ventinovesimo Paese al mondo per Pil pro capite. Dei fattori che hanno cambiato (in peggio) l’economia giapponese si occupa Bill Emmott nel suo nuovo libro, Japan’s Far More Female Future (Oxford University Press, pp. 224, £ 30). Sin dal titolo, l’ex direttore de L’economist individua uno dei nodi cruciali nella cattiva utilizzazione del lavoro femminile. Nell’epoca d’oro, il Giappone, riflette Emmott, forniva istruzione di qualità elevata, che risultava in una forza lavoro qualificata ma prevalentemente maschile. Pochissime erano le donne che frequentavano l’università e il matrimonio coincideva, per quasi tutte, con l’abbandono del mondo del lavoro. Oggi «la partecipazione femminile alla forza lavoro fra i 15 e i 64 anni è grosso modo allo stesso livello dei Paesi europei», ma permangono molti problemi: l’esistenza di molte università esclusivamente femminili (per quanto, in alcuni casi, eccellenti) continua ad essere un’ulteriore elemento di differenziazione fra uomini e donne agli occhi dei potenziali datori di lavoro. Soltanto il 45% delle donne ha un contratto stabile, contro il 78% degli uomini: e questo nonostante un contesto nel quale diminuisce vistosamente il numero delle persone sposate. «Oggi un quarto degli uomini cinquantenni e il 15% delle donne di quell’età non sono mai stati sposati, e il numero continua a crescere».
La chiave
L’evento chiave, che spiega gli sviluppi successivi, è per Emmott lo scoppio della «bolla» giapponese nel 1991. Allora, a infilare lo spillo nel palloncino fu la Banca centrale, con una serie di rialzi dei tassi. La crisi fu, al pari del più recente incidente di Fukushima, «qualcosa di molto poco giapponese: un evento». E’ una battuta ma l’amore per la routine, la forte propensione sociale a evitare per quanto possibile strappi e cambiamenti, può contribuire a spiegare i comportamenti. Per Emmott, le imprese reagirono allora attraverso una sorta di «aggiustamento condiviso» che le portò sostanzialmente a operare sul versante dei costi, per non ridurre il numero degli occupati. E’ stata una sorta di «dispersione sociale del danno»: «invece che attraverso licenziamenti di massa, i datori di lavoro risposero [alla crisi] tagliando bonus, straordinari, alla fine gli stessi salari, e riducendo e poi congelando le nuove assunzioni». Si sviluppa così il forte dualismo che contrassegna il mercato del lavoro giapponese, diviso fra lavoratori a tempo indeterminato e contratti part time, a termine, interinali. Questi ultimi erano in larga parte giovani e donne, che in un’economia stagnante sperimentano a loro volta più difficoltà nel passare dai contratti a tempo a quelli più stabili. L’attenzione ai costi e, in tutta evidenza, le aspettative sul futuro del loro stesso Paese hanno portato le imprese a ridurre gli investimenti, la conseguenza è stata un rallentamento marcato della crescita in produttività, soprattutto nel settore dei servizi. Vi ricorda qualcosa?
In Giappone «solo il 4% delle donne e il 6% degli uomini prende parte nell’attività imprenditoriale». Emmott presenta una serie di «vite notevoli», nel racconto di alcune donne leader nei rispettivi campi, e una serie di proposte di policy per infondere dinamismo all’economia giapponese.
A noi purtroppo, oggi, interessa soprattutto la fotografia: un Paese vecchio, altamente indebitato, che usa male il suo capitale umano e dove la voglia di intraprendere è ridotta ai minimi termini. Vent’anni di politiche monetarie espansive gli hanno dato ossigeno, ma non hanno risolto nessuno dei suoi problemi. Da europei, dovremmo prenderne nota.