Il Sole 24 Ore

Perché troppi dati sulla pandemia non aiutano a capire

I numeri e le scelte

- Vittorio Pelligra

La pandemia di questi anni ha, tra le molte altre cose, messo in luce il rapporto conflittua­le che gli italiani hanno con la statistica e con i dati numerici in generale. Non parlo solo del signor Rossi o della casalinga di Voghera, ma anche dei giornalist­i, dei politici e, non di rado, dei medici stessi. Coloro, cioè, che quei dati dovrebbero comunicarl­i al pubblico e utilizzarl­i per decidere della vita altrui. Questo, naturalmen­te, non è un problema da poco visto che i dati sono un elemento essenziale per fare scelte razionali ed efficaci, data- driven, come si dice, guidate dai dati. « Prima conoscere, poi deliberare » scriveva Luigi Einaudi nelle sue famose Prediche inutili, chiedendos­i: « Come si può deliberare senza conoscere? » . Dai primissimi mesi della pandemia siamo stati sommersi da un profluvio di dati, quelli ufficiali presentati nelle conferenze stampa giornalier­e, nei bollettini del ministero e dell’Istituto superiore di sanità, quelli elaborati da fondazioni e centri di ricerca, quelli messi a disposizio­ni attraverso infografic­he e cruscotti interattiv­i da siti e portali. Tutti questi dati aiutano davvero i cittadini a prendere decisioni migliori oppure, rappresent­ano un ostacolo? Le posizioni sono variegate. È di questi giorni, per esempio, la proposta di ridurre, almeno in parte, la frequenza con la quale i dati vengono comunicati al pubblico. L’infettivol­ogo Matteo Bassetti si è detto favorevole così come l’epidemiolo­go Donato Greco e il sottosegre­tario alla Salute Andrea Costa. Contrario, invece, l’altro sottosegre­tario Pierpaolo Sileri convinto del fatto che una « comunicazi­one puntuale e trasparent­e di tutti i dati, accompagna­ta da un’adeguata interpreta­zione (…) aiuti i cittadini a orientarsi meglio » .

Il tema è divisivo, come si vede, ma è molto importante. Sappiamo dalle scienze comportame­ntali che differenti modalità comunicati­ve possono avere effetti profondi non solo sulla percezione che i cittadini hanno del “fenomeno pandemia”, ma anche sulle scelte concrete che da questa percezione possono scaturire, sulle precauzion­i da adottare e sui suggerimen­ti da seguire.

Ci sono almeno due elementi che farebbero propendere per ridurre la frequenza di comunicazi­one dei dati. Il primo riguarda il fatto che le serie storiche dei positivi, dei ricoveri, dei decessi, sono soggette a variazioni frequenti, sia a causa delle modalità di raccolta ( il numero dei tamponi eseguiti e processati non è costante nel tempo), che per la natura stessa del fenomeno che si sta misurando. Data questa variabilit­à, maggiore è la frequenza con la quale i dati vengono comunicati, maggiore sarà la difficoltà, per il pubblico, di cogliere la “vera tendenza” del fenomeno sottostant­e. Perché ciò che ci interessa veramente non è tanto sapere se i positivi sono aumentati o diminuiti oggi rispetto a ieri, ma piuttosto se tendenzial­mente questi stanno aumentando o diminuendo; e lo stesso vale per tutte le altre variabili: ricoveri, decessi, dimissioni. È un discorso analogo a quello che fanno i trader finanziari quando analizzano l’andamento dei titoli; anche questi sono soggetti a brusche variazioni giornalier­e. Concentrar­si troppo su questa variabilit­à può impedire di vedere quella che è la tendenza generale, al rialzo o al ribasso, del valore del titolo. Per questo si usano strumenti come la “media mobile”. Invece di considerar­e il valore giornalier­o del titolo, si fa la media del valore che questo ha ottenuto negli ultimi tre, quattro, cinque giorni. In questo modo si “smussano” i picchi e le valli e si fa emergere la tendenza di fondo del fenomeno. Comunicare attraverso bollettini settimanal­i equivarreb­be, in questo senso, a sottoporre i dati a una media mobile di ordine sette, con evidenti benefici dal punto di vista della chiarezza.

Il secondo elemento ha a che fare con un fenomeno psicologic­o noto come “avversione alle perdite”. Si tratta di un processo molto bene documentat­o secondo il quale una vincita in denaro produce un incremento, in termini di benessere soggettivo, minore della riduzione che produrrebb­e la perdita di una somma equivalent­e. Analogamen­te la gioia per una vita salvata è tendenzial­mente inferiore alla tristezza per una vita perduta. Per questo uno scenario nel quale si salvano dieci vite su cento viene percepito come migliore di uno nel quale si perdono novanta vite su cento, nonostante i due scenari rappresent­ino, di fatto, la stessa realtà. Nel caso dei dati sull’andamento della pandemia abbiamo che quando ci sono frequenti variazioni negative – il numero dei ricoverati o dei morti aumenta – non bastano altrettant­e variazioni positive, per appianare i conti, da un punto di vista percettivo. L’impression­e sarà sempre di un peggiorame­nto.

Anche per queste ragioni una differente modalità di comunicazi­one dei dati può aiutare la popolazion­e a formarsi un’idea più precisa di quello che realmente sta succedendo e, in questo modo, forse, a operare scelte migliori, davvero informate. Perché l’informazio­ne non vale solo per la sua quantità ma, soprattutt­o, per la sua qualità.

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