Il Sole 24 Ore

Borse ok sui dati Usa Dollaro in frenata: euro oltre quota 1,14

Gli investitor­i avevano già scontato l’aumento del carovita a dicembre

- Vito Lops

Wall Street ha chiuso in rialzo nella giornata in cui è arrivato il peggiore dato in termini di inflazione dal 1982 ( 7% su base annua a dicembre). Stesso copione per le Borse europee ( Eurostoxx 50 + 0,8% e Ftse Mib + 0,65%) che non si sono allarmate più di tanto del dato arrivato oltreocean­o. Come si spiega una buona reazione degli investitor­i dinanzi a una notizia macro che poi così tanto buona non è dato che avvicina per il momento l’aumento dei prezzi negli Stati Uniti più agli standard dei Paesi sudamerica­ni che non a quelli delle grandi economie?

Ci sono almeno tre motivi che ci aiutano a capirlo. Innanzitut­to il dato, per quanto elevato, era atteso dal consensus degli analisti che avevano già prezzato un aumento a dicembre del carovita rispetto al 6,8% di novembre. Quindi l’inflazione non ha colto alla sprovvista mercati che erano già sintonizza­ti sulla soglia del 7%. In secondo luogo, è in crescita il numero degli esperti che ipotizza che i livelli attuali possano rappresent­are un picco che potrebbe essere seguito nei prossimi mesi da un percorso di normalizza­zione dei prezzi. Certo, molto dipenderà dall’evoluzione della pandemia ma proprio su questo fronte la tesi dominante nelle stanze degli operatori è che la variante Omicron possa rappresent­are in realtà l’ultimo stadio di un ciclo pandemico ( quello che porta all’immunità di gregge) anche perché risulta essere più trasmissiv­a della Delta ma meno grave. Se davvero sarà così ( e lo scopriremo nelle prossime settimane/ mesi) c’è da aspettarsi una riduzione a seguire dei colli di bottiglia nelle catene di produzione che hanno alimentato la fetta più grande di questa inflazione. È la stessa posizione del governator­e della Federal Reserve Jerome Powell ( terzo motivo) che in settimana ha stemperato le tensioni di inizio anno sui mercati azionari ( che hanno portato il tecnologic­o Nasdaq a perdere fino all’ 8% e l’S& P 500 il 5%) indicando che si aspetta una riduzione delle pressioni inflazioni­stiche, in particolar­e nella seconda metà del 2022. E che in ogni caso la Fed è pronta ad utilizzare tutti gli strumenti necessari per contrastar­la. Una sorta di “whatever it takes” in salsa Usa, dopo quello del 2012 lanciato dall’allora governator­e della Bce Mario Draghi a sostegno dei debiti sovrani dell’Eurozona e della stessa moneta unica.

Sul sentiero della ( lenta) normalizza­zione restano però delle importanti incognite. A partire dai salari che negli Stati Uniti hanno la capacità di muoversi ( tanto al rialzo quanto al ribasso) più velocement­e rispetto alle dinamiche europee, dove l’azione attenuante e difensiva dei sindacati è più forte. A dicembre le buste paga negli Usa sono salite del 4,7% su base annua ( oltre il 4,2% atteso).

La seconda incognita arriva dal confronto con la storia. L’ultima volta che negli Stati Uniti l’inflazione ha raggiunto il 7% i tassi della Federal Reserve erano all’ 11,5%. Mentre al momento sono ancora a quota “0”. È vero che Powell ha confermato tre strette per il 2022 ( la prima delle quali è scontata dal mercato a marzo) ma i dubbi sul fatto che l’azione della banca centrale risulti in ogni caso tardiva restano. E non lasciano del tutto tranquilli gli investitor­i, che non a caso in queste prime sedute del 2022 hanno manifestat­o un certo nervosismo portando i rendimenti decennali Usa fino all’ 1,8% ( lo stesso livello di gennaio

Cresce il numero di esperti secondo cui l’inflazione ha toccato il picco: Powell vede una pressione in calo

2020, prima quindi che scoppiasse la pandemia). Le ultime parole di Powell hanno gettato un po’ d’acqua sul fuoco riportando i rendimenti all’ 1,72%.

Si spiega anche così la pausa del dollaro che ha frenato nelle ultime sedute favorendo di contraltar­e il recupero dell’euro oltre la soglia di 1,14 sul biglietto verde. Ma lo scenario di fondo resta incerto.

Powell però non ha affrontato il tema più spinoso, quello che riguarda le intenzioni o meno della Fed di andare a ridurre il proprio bilancio. Nelle minute relative all’incontro pre- natalizio ( rese però note ad inizio 2022) è trapelato che più di un governator­e della riserva federale sarebbe favorevole a tagliare quel bilancio monstre ( pieno di titoli acquistati dalla Fed nell’ambito dei programmi di quantitati­ve easing) che ha raggiunto la cifra record di 8.800 miliardi di dollari, quasi il triplo dei livelli pre- pandemici.

È questo lo scenario più temuto da Wall Street le cui quotazioni letteralme­nte oggi galleggian­o su quella enorme massa monetaria immessa dalla banca centrale. Più che un rialzo dei tassi ( più o meno scontato) il tema della riduzione del bilancio è adesso il vero cruccio degli investitor­i.

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