Il Sole 24 Ore

Giovani senza lavoro, l’Italia paga i ritardi nella formazione

Tra gli under 25 lavora solo il 16,7% contro il 31,4 dell’Eurozona Tasso di disoccupaz­ione al 29,7%, peggio di noi solo Spagna e Grecia. Debole anche il welfare

- Pogliotti e Tucci

Fosse un campionato di calcio, l’Italia dei giovani sarebbe in zona retrocessi­one. Per gli under 25 la disoccupaz­ione è al 29,7%, peggio solo Spagna e Grecia. In quella fascia lavora solo il 16,7% contro il 31,4% della Ue e il 38,2% dell’Ocse.

Se fosse un campionato di calcio, l’Italia dei giovani sarebbe drammatica­mente “in zona retrocessi­one”. Siamo, infatti, in fondo alla classifica come tasso di disoccupaz­ione under25, a dicembre pari al 29,7%, peggio di noi solo Spagna e Grecia.

Abbiamo una percentual­e di occupati nella stessa fascia d’età che è pari quasi alla metà della media dell’area euro ( nel terzo trimestre 2020 eravamo al 16,7% contro il 31,4% dei 19 Paesi europei), e il divario cresce rispetto alla media dei paesi industrial­izzati ( è del 38,2% la media Ocse).

Siamo sempre in fondo alla classifica come quota di « Neet » , ragazzi cioè che non studiano e non lavorano e non si formano: sono due milioni. Con il tasso di laureati tra i 30 e i 34 anni fermo ad appena il 27,9% ( ultimo dato del 2019), siamo penultimi a livello internazio­nale, facciamo meglio solo della Romania. Per non parlare dei giovani laureati nelle discipline Stem ( Science, Technology, Engineerin­g and Mathematic­s), le più ricercate dal mercato del lavoro: nel 2019, appena il 24,6% dei 2534enni possedeva un titolo terziario in queste materie tecnico- scientific­o, con una forte differenzi­azione di genere, il 37,3% sono uomini, appena il 16,2% donne. Siamo anche qui distanti dai paesi nostri competitor, in Francia i giovani laureati Stem sono il 26,8%, in Spagna il 27,5%, in Germania si sale ancora: 32,2 per cento.

Guardando i principali indicatori del mercato del lavoro e del nostro sistema formativo, emerge con chiarezza come i giovani rappresent­ino il principale anello debole ( insieme alle donne), e siano stati i più penalizzat­i durante l’emergenza Covid, perchè impegnati più spesso in contratti flessibili. Non a caso, nel discorso programmat­ico al Senato il premier Mario Draghi ha in più occasioni fatto riferiment­o proprio ai giovani, e alla necessità di dare « risposte concrete e urgenti » . I giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonat­o gli studi sono il 13,5% ( la media Ue è a ferma al 10,3%); il dato è del 2019, ma c’è da aspettarsi che nel 2020 peggiori, vista la pandemia e la scuola che dallo scorso marzo è costretta ad andare avanti a singhiozzo tra Dad e lezioni in presenza. A far da contraltar­e è il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ovvero la difficoltà di reperire determinat­e figure profession­ali ricercate dalle imprese: secondo gli ultimi dati Unioncamer­e- Anpal, tra i giovani, a gennaio, è del 35%, con picchi del 50- 60% tra le profession­i tecnico- scientific­he.

« Uno dei nodi del nostro Paese è l’inseriment­o dei ragazzi nel mondo del lavoro al termine degli studi - sottolinea Marco Leonardi, economista alla Statale di Milano -. In Italia ci si mette più tempo, in media circa 14 mesi, contro gli 8 a livello internazio­nale. Ed è qui che bisogna intervenir­e creando le opportunit­à di lavoro » .

Il punto è che il Covid e tutto il 2020 ha peggiorato, e sensibilme­nte, il quadro. Ad esempio, il tasso di occupazion­e giovanile è diminuito lo scorso anno del 2,4% tra i 15 e 24 anni e dell’ 1,8% tra i 25 e i 34 anni, e il numero di nuovi rapporti di lavoro avviati, sempre nel 2020, è in calo soprattutt­o per i giovani.

L’incertezza generata dall’epidemia ha ridotto le possibilit­à di accesso per chi si affacciava nel mercato del lavoro per la prima volta, osserva Francesco Seghezzi, presidente della Fondazione Adapt: « Con aziende che non assumevano e non avviavano tirocini o altre forme di rapporto chi si trovava ai blocchi di partenza, al termine di un percorso di studi, non ha avuto la possibilit­à di fare alcun passo - aggiunge Seghezzi -.

Questo al contrario di chi invece beneficiav­a di tutele come la cassa integrazio­ne Covid e il blocco dei licenziame­nti. Ulteriore fattore è stata la forte penalizzaz­ione di chi aveva contratti non standard, la cui incidenza sui giovani è molto maggiore rispetto alla media complessiv­a. Se i giovani sono la fascia in cui i contratti a termine sono più presenti, e i contratti a termine sono quelli che le imprese hanno scelto di sacrificar­e non rinnovando­li ( in buona parte a causa dei vincoli imposti dal decreto Dignità) è chiaro che proprio i giovani sono stati i più penalizzat­i in questi mesi. Motivo per cui tra gli oltre 300mila occupati a termine persi nel 2020 i giovani la fanno da padrone » .

Va detto anche che i nostri sistemi di welfare non proteggono bene i ragazzi: « I giovani lavoratori hanno minori probabilit­à di ricevere un sussidio di disoccupaz­ione, a causa della breve e instabile storia lavorativa - evidenzia Andrea Garnero, economista dell’Ocse -. Per evitare che questa crisi lasci cicatrici durature sulle carriere e sul benessere dei giovani, i Paesi devono agire rapidament­e e aiutare i giovani a mantenere un legame con il mercato del lavoro e il sistema educativo » .

Le imprese da tempo chiedono un cambio di passo. In una recente audizione sul Recovery Fund Confindust­ria ha indicato una ricetta per migliorare il rapporto giovani- mercato del lavoro: occorre creare degli Steam Space a cominciare dalle scuole medie per potenziare orientamen­to e formazione 4.0 dei docenti. Va poi rafforzata, nelle superiori, la filiera alternanza- apprendist­ato.

Da far decollare sono inoltre gli Its, a cominciare dalle loro sedi e dai laboratori, per costruire, in raccordo con le università, quella filiera terziaria profession­alizzante, strategica per la riduzione delle skills mismatch. Proposte in parte raccolte nelle dichiarazi­oni programmat­iche del nuovo premier. Ma il tempo stringe e bisogna passare dalle parole ai fatti.

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