Si fa presto a dire «Netflix della cultura»
Dando seguito a quanto annunciato durante il primo lockdown, il ministro Dario Franceschini ha annunciato ItsArt, la “Netflix della cultura”, una piattaforma che vedrà la luce a fine febbraio del 2021. La società si avvale di uno stanziamento di 10 milioni da parte del Mibact, 9 da parte di Cassa Depositi e Prestiti e altrettanti da Chili Spa. Ovviamente non si tratta di un modello Netflix, ma di un repository di contenuti messi a disposizione, in parte gratuitamente e in parte a pagamento, per dare una risposta alle esigenze di teatro, musica e musei. Vanno allora evidenziate alcune questioni. Se la piattaforma non produce contenuti, chi lo fa? Evidentemente le singole istituzioni. Ma le produzioni dei singoli enti sono spesso di scarsa qualità e chi conosce questo mondo sa che il successo di una piattaforma deriva dalla qualità dei contenuti.
Se ci sarà uno sbarramento qualitativo si corre il rischio di lasciare fuori i piccoli. A meno che non si attui una qualche forma di mutualismo facendo confluire tecnologie e professionalità dal grande al piccolo. Insorge però un problema tecnico e logistico che potrebbe affrontare Rai. Ecco allora un secondo snodo: Rai si è tolta dalla competizione adducendo l’impossibilità di sviluppare modelli a pagamento, eppure deve poter rientrare per garantire questa fase di passaggio mediale. Ma a questo punto entrerebbe in concorrenza con le sue piattaforme, soprattutto Rai Play. Il problema potrebbe essere anche più significativo per le produzioni di alto profilo: riuscirà la piattaforma a ospitare operazioni più complesse come visite in realtà virtuale o eventi in extended reality? Anche perché quella è la direzione verso cui si dovranno indirizzarsi musei, teatri e siti archeologici. Parliamo di potenza, di capienza e di duttilità.
Affidarsi a Chili significa contare su un know-how: forme di sbigliettamento, revenue sharing, questione copyright, e quindi lavorare sull’espansione, che significa un sistema tecnologico integrato e non soltanto una piattaforma di video streaming. Per questo bastava fare un accordo nazionale con alcune piattaforme come quello di alcuni festival del cinema con Mymovies. Bisognerà comunque aver presente il tema dell’integrazione tra piattaforme e siti diversi: chi ha già avviato campagne con propri mezzi, come la Cineteca di Bologna con Mymovies, difficilmente ci rinuncerà e allora bisognerà trovare il modo di integrare la propria strategia di distribuzione, marketing e didattica. Ogni ente difficilmente potrà solo proporre un contenuto, ma dovrà ripensare la sua strategia. Il rischio è che chi ha i mezzi possa ovviare o decida di non partecipare, chi non li ha difficilmente riuscirà a contribuire.
La piattaforma significa anche creare opportunità di internazionalizzazione. Questo implica però un’operazione di marketing che, da una parte è molto costosa e dall’altra deve per forza lavorare anche sui social puntando sulla transmedialità. Avvalendosi cioè di team di social media manager che però al momento molti enti non hanno. Inoltre la piattaforma dovrà assolvere esigenze di didattica e formazione. Il legame tra beni culturali e scuola è inesorabile. A questo punto però non è pensabile l'esclusione di Rai Teche.
E finiamo con i costi: per fare tutto questo i fondi messi a disposizione appaiono pochi. Bisogna capire allora quale mission assolvere prioritariamente e avviare fin da subito partnership, tenendo a mente che il vero problema è l’infrastruttura. La piattaforma è un’opportunità solo se attorno ad essa inizia a ruotare un nuovo sistema per i beni culturali e lo spettacolo, nuove figure professionali, una connessione degna e una diffusa competenza digitale.