Istat, 250mila imprese guidano la riscossa ma 292mila piccole fanno fatica a reagire
A rischio le aziende minori sotto i 7 dipendenti prive di strategie definite
A novembre, vale a dire nel pieno della seconda ondata dei contagi, Istat ha quantificato in 291.805 imprese - impiegano un milione e 884mila addetti, hanno in media non più di 7 dipendenti e producono circa 62 miliardi di valore aggiunto - l’anello più debole del nostro sistema produttivo, quello cioè che sta subendo più pesantemente l’impatto dell’emergenza sanitaria e che non ha adottato strategie di reazione ben definite. Sono le imprese definite «statiche in crisi», rappresentano il 28% del totale e si contrappongono a un nucleo minore di 58mila società di più grande dimensione - circa 42 addetti, hanno nel loro insieme 2,5 milioni di occupati e producono 183 miliardi di valore aggiunto - definite invece «proattive avanzate», cioè colpite in maniera variabile dalle conseguenze della crisi ma che nel corso del 2020 hanno aumentato gli investimenti rispetto al 2019.
Istat ha scattato la nuova fotografia sulle condizioni operative delle imprese nazionali con una seconda analisi rapida multivariata realizzata tra il 23 ottobre e il 16 novembre, dopo quella effettuata in maggio. Coinvolte circa un milione di società con oltre 12 milioni di addetti che, nel complesso, rappresentano quasi il 90% del valore aggiunto e circa tre quarti dell'occupazione nell’industria nei servizi. I risultati consolidano quelli raccolti nella prima indagine e raggruppano in cinque profili l’impronta lasciata dalla pandemia e le strategie messe in campo per reagire. Oltre ai due gruppi estremi già indicati seguono le imprese definite «statiche resilienti», quelle «proattive in sofferenza» e le «proattive in espansione». Secondo l’analisi a fine anno quasi due terzi delle imprese italiane con almeno tre addetti risultavano ancora prive di un chiaro quadro strategico di reazione alla crisi e di sviluppo di mediolungo periodo e oltre un terzo, indipendentemente dalla capacità di reagire, mostrava segni di crisi o di sofferenza operative.
A pesare sulle collocazioni nei diversi raggruppamenti di imprese c’è naturalmente la dimensione, il settore di appartenenza, la produttività, il livello di scolarizzazione dei dipendenti e l’internazionalizzazione di ogni azienda considerata. Le imprese più reattive allo choc economico risultano al momento quelle che hanno deciso di puntare sulla riconversione produttiva, la riorganizzazione dei processi verso nuovi modelli industriali, il riposizionamento delle loro attività sull’estero (modifica dei prodotti importati/ esportati,dei paesi partner, della logistica). Strategie e scelte di investimento per rafforzare la competitività che, in molti casi, erano già in campo quando è arrivata la prima ondata dei contagi da coronavirus, e che non si sono interrotte. C’è insomma un nucleo forte di oltre 250mila imprese - con circa 6,5 milioni di addetti e 474 miliardi di valore aggiunto - che in questa fase rappresenta la componente più proattiva del sistema produttivo e che, pur in presenza delle inevitabili difficoltà imposte dalla persistenza della crisi e della conseguente incertezza, non presenta segnali evidenti di sofferenza e si associa ad un orientamento fortemente reattivo nell’elaborazione strategica, declinata in precise decisioni aziendali a livello di investimenti, risorse umane, transizione digitale.
Per gli enti locali quasi certo il rinvio al 31 marzo dell’approvazione di bilanci preventivi e delibere sui tributi