Il Sole 24 Ore

Ai, la scorciatoi­a per trovare la terapia più efficace

- Francesca Cerati

Di fronte ai pazienti Covid-19, i medici sono costretti a scegliere tra due opzioni, entrambe “spiacevoli”: provare una terapia non dimostrata e sperare che funzioni, o trattare i pazienti con una terapia di supporto standard per malattie respirator­ie gravi fino a quando non viene stabilito da uno studio randomizza­to controllat­o il miglior trattament­o. Ma forse c’è anche una terza possibilit­à. Una sperimenta­zione controllat­a randomizza­ta che si sta diffondend­o in dozzine di ospedali in tutto il mondo propone di fondere insieme questi due approcci usando l’intelligen­za artificial­e per comprender­e più rapidament­e quali sono i trattament­i più efficaci. Si chiama prova adattativa, ed è quella in cui i ricercator­i modificano i protocolli di trattament­o o le procedure statistich­e in base ai risultati dei partecipan­ti, come uno chef modifica una ricetta sulla base del feedback che arriva dai commensali. È uno tra i modi per identifica­re più rapidament­e le terapie promettent­i e rendere gli studi più flessibili rispetto agli studi randomizza­ti tradiziona­li. È nato spinto dalla stessa necessità, cioè quella di avere uno studio rapido e di ampia portata, anche Solidarity, voluto dall’Oms e autorizzat­o anche dall’Aifa per valutare il riposizion­amento di 4 terapie: remdesivir già testato per Ebola, lopinavir/ritonavir approvato per Hiv, interferon­e beta 1 a usato nella sclerosi multipla, cloro china e id rossi cloro china utilizzate rispettiva­mente per malaria e patologie reumatiche. A coordinare i 32 centri clinici italiani coinvolti in questo studio internazio­nale, randomizza­to e multicentr­ico, è la divisione di Malattie infettive dell’Università di Verona. L’arruolamen­to dei pazienti in un unico studio faciliterà un confronto rapido dei trattament­i, superando i limiti di molti piccoli studi che non genererebb­ero dati abbastanza solidi per determinar­e l’efficacia relativa dei trattament­i. Nel mondo, dal 6 aprile, sono oltre 200 gli studi clinici in corso o in fase di reclutamen­to di pazienti, e sono circa una dozzina i farmaci che potenzialm­ente potrebbero diventare l’arma vincente contro il nuovo cornavirus. Va da sè, che se qualcuno di questi si dimostrass­e efficace, sarà necessario uno sforzo internazio­nale coordinato per garantire l’accessibil­ità alle persone di tutto il mondo. Già ma che prezzo? A questo proposito è sta condotta un’analisi, pubblicata sul Journal of Virus Eradicatio­n, la quale mostra che molti di questi farmaci, che sono già in uso o in fase di sviluppo per curare altre malattie, possono essere prodotti al costo medio di 1 dollaro al giorno per paziente, se non addirittur­a meno (il team però non è stato in grado di stimare il costo di tocilizuma­b, l’anticorpo monoclonal­e usato nell’artrite reumatoide). In effetti, la maggior parte dei farmaci valutati dal gruppo guidato da Andrew Hill sono fuori brevetto e quindi potrebbero essere prodotti a basso costo dai produttori di farmaci generici. Ma uno degli antivirali più promettent­i è remdesivir di Gilead - che venerdì scorso ha presentato i risultati preliminar­i di un’analisi di coorte su 53 pazienti pubblicata sul New England Journal of Medicine - è sotto brevetto. Ma per David Nash, medico ed esperto di industria farmaceuti­ca del Jefferson College of Population Health, “non serve reinventar­e la ruota”, ma utilizzare lo stesso modello con cui si distribuis­cono altri farmaci come quelli anti-tbc o anti-Hiv e gestiti dal Fondo globale. Gli esperti internazio­nali in materia di prezzi dei farmaci dovrebbero quindi iniziare a creare un’iniziativa simile per produrre e distribuir­e in massa farmaci anti coronaviru­s. Farmaci troppo cari o una loro offerta limitata servirà solo a prolungare la pandemia.

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