Ai, la scorciatoia per trovare la terapia più efficace
Di fronte ai pazienti Covid-19, i medici sono costretti a scegliere tra due opzioni, entrambe “spiacevoli”: provare una terapia non dimostrata e sperare che funzioni, o trattare i pazienti con una terapia di supporto standard per malattie respiratorie gravi fino a quando non viene stabilito da uno studio randomizzato controllato il miglior trattamento. Ma forse c’è anche una terza possibilità. Una sperimentazione controllata randomizzata che si sta diffondendo in dozzine di ospedali in tutto il mondo propone di fondere insieme questi due approcci usando l’intelligenza artificiale per comprendere più rapidamente quali sono i trattamenti più efficaci. Si chiama prova adattativa, ed è quella in cui i ricercatori modificano i protocolli di trattamento o le procedure statistiche in base ai risultati dei partecipanti, come uno chef modifica una ricetta sulla base del feedback che arriva dai commensali. È uno tra i modi per identificare più rapidamente le terapie promettenti e rendere gli studi più flessibili rispetto agli studi randomizzati tradizionali. È nato spinto dalla stessa necessità, cioè quella di avere uno studio rapido e di ampia portata, anche Solidarity, voluto dall’Oms e autorizzato anche dall’Aifa per valutare il riposizionamento di 4 terapie: remdesivir già testato per Ebola, lopinavir/ritonavir approvato per Hiv, interferone beta 1 a usato nella sclerosi multipla, cloro china e id rossi cloro china utilizzate rispettivamente per malaria e patologie reumatiche. A coordinare i 32 centri clinici italiani coinvolti in questo studio internazionale, randomizzato e multicentrico, è la divisione di Malattie infettive dell’Università di Verona. L’arruolamento dei pazienti in un unico studio faciliterà un confronto rapido dei trattamenti, superando i limiti di molti piccoli studi che non genererebbero dati abbastanza solidi per determinare l’efficacia relativa dei trattamenti. Nel mondo, dal 6 aprile, sono oltre 200 gli studi clinici in corso o in fase di reclutamento di pazienti, e sono circa una dozzina i farmaci che potenzialmente potrebbero diventare l’arma vincente contro il nuovo cornavirus. Va da sè, che se qualcuno di questi si dimostrasse efficace, sarà necessario uno sforzo internazionale coordinato per garantire l’accessibilità alle persone di tutto il mondo. Già ma che prezzo? A questo proposito è sta condotta un’analisi, pubblicata sul Journal of Virus Eradication, la quale mostra che molti di questi farmaci, che sono già in uso o in fase di sviluppo per curare altre malattie, possono essere prodotti al costo medio di 1 dollaro al giorno per paziente, se non addirittura meno (il team però non è stato in grado di stimare il costo di tocilizumab, l’anticorpo monoclonale usato nell’artrite reumatoide). In effetti, la maggior parte dei farmaci valutati dal gruppo guidato da Andrew Hill sono fuori brevetto e quindi potrebbero essere prodotti a basso costo dai produttori di farmaci generici. Ma uno degli antivirali più promettenti è remdesivir di Gilead - che venerdì scorso ha presentato i risultati preliminari di un’analisi di coorte su 53 pazienti pubblicata sul New England Journal of Medicine - è sotto brevetto. Ma per David Nash, medico ed esperto di industria farmaceutica del Jefferson College of Population Health, “non serve reinventare la ruota”, ma utilizzare lo stesso modello con cui si distribuiscono altri farmaci come quelli anti-tbc o anti-Hiv e gestiti dal Fondo globale. Gli esperti internazionali in materia di prezzi dei farmaci dovrebbero quindi iniziare a creare un’iniziativa simile per produrre e distribuire in massa farmaci anti coronavirus. Farmaci troppo cari o una loro offerta limitata servirà solo a prolungare la pandemia.