UN RUOLO NUOVO PER LA BCE PER SUPERARE LA CRISI
Il Presidente Conte ha dichiarato che occorre trovare soluzioni eccezionali per fare fronte all’emergenza del Covid-19. Ha certamente ragione. Lo stallo delle trattative potrebbe erodere ulteriormente il consenso dei cittadini per l’Europa e aumentare la nostra fragilità finanziaria. È quindi apprezzabile lo sforzo del governo per trovare soluzioni a livello europeo, ma occorre che questo sforzo si tramuti in proposte concrete e percorribili. In particolare, la competizione politica e la propaganda hanno trasformato il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) in una specie di peccato originale e gli eurobonds nel “Santo Graal” della Tavola Rotonda. La verità è che aver contribuito all’istituzione del MES è un merito di cui i governi Berlusconi e Monti dovrebbero essere fieri. Esso ha contribuito a spegnere il contagio finanziario del 2011 (insieme alle politiche della Bce), ha permesso a Irlanda, Portogallo e Spagna di salvare il proprio sistema creditizio e ha salvato la Grecia dal default. Chi oggi associa il MES alle sofferenze del popolo greco per la crisi dei suoi debiti sovrani dimentica che quelle sofferenze erano cominciate prima dell’intervento del MES, e che tale intervento ha evitato guai ben peggiori.
Ma veniamo alla questione degli Eurobonds. Sono veramente un obiettivo non ancora raggiunto? L’accordo nell’Eurogruppo del 9 aprile prevede che i Paesi possano ottenere prestiti dal MES senza condizioni sulle politiche macroeconomiche (ma solo sulla destinazione dei fondi) per un massimo del 2% del Pil (circa 36 miliardi per l’Italia), e stanzia altri fondi (programma SURE e BEI) fino a un totale di 500 miliardi. Altri 500 miliardi sono stati promessi come “fondo ricostruzione”, ma non sappiamo ancora come verranno finanziati. Tutti questi stanziamenti sono una forma di mutualizzazione dei debiti nazionali, cioè i Paesi più a rischio (come l’Italia) si finanziano a tassi inferiori ai livelli chiesti dal mercato e al riparo dalla speculazione. La questione che si pone non è più, quindi, come possiamo esser finanziati attraverso le istituzioni europee, ma piuttosto quanto. Il Presidente Conte afferma, invece, che il governo è impegnato in una trattativa per ottenere uno «strumento innovativo», e rifiuta di ricorrere a quelli esistenti. L’unico strumento più “avanzato” sarebbe, però, un debito europeo sostenuto da un ampio gettito fiscale. Ma quali risorse reali possono essere messe in campo per sostenere la creazione di un debito federale europeo di questo tipo? Come si fa a dare all’Europa la legittimità politica per mettere le mani in tasca ai cittadini? E quale quota del nostro bilancio nazionale potrebbe essere devoluta al bilancio federale? L’integrazione politica per fare questi passi non è realizzabile nel giro di pochi mesi, anche perché la cessione delle competenze nazionali è osteggiata dai partiti sovranisti. Se, invece, Conte intendesse ripiegare
NON SOLO LIQUIDITÀ ALLE BANCHE, SI PUÒ AGIRE ACQUISTANDO FONDI SOVRANI
su emissioni di debito emesso da un ente privo di autorità politica e capacità impositiva, ma garantiti dai Paesi più forti (Europa del Nord), allora non si capisce quale sia la novità sostanziale rispetto all’accordo raggiunto il 9 aprile. Questi strumenti prevedono, in buona sostanza, che i paesi dell’Europa del Nord e continentale (che già godono di credito a tassi bassi) si offrano come garanti nei confronti del mercato della solidità dei debiti concessi ai Paesi del sud Europa. Sembra piuttosto logico che, in cambio di tali garanzie, sia posta la condizione che i finanziamenti siano utilizzati per scopi specifici.
Come detto sopra, la vera questione riguarda la capacità di questi nuovi programmi di fare fronte all’impatto della crisi. Mario Draghi ha recentemente affermato che lo shock economico del Covid-19 è paragonabile a quello provocato da una guerra. Occorre quindi prendere spunto dalla storia degli anni 20 e degli anni 50. A costo di semplificare, possiamo dire che nel primo caso l’unico Paese che aveva la forza per prestare o tagliare il valore dei crediti, cioè gli Stati Uniti, si rifiutarono di farlo. Seguirono guerra e totalitarismi. Nel secondo dopoguerra, invece, fu varato il Piano Marshall e creato il Fondo Monetario Internazionale. Negli anni 20 i Paesi erano vincolati dal Gold Standard, mentre negli anni 50 i vincoli monetari furono allentati, e il grande debito accumulato dagli stati belligeranti fu abbattuto con la crescita economica e l’inflazione. Oggi manca un Paese nelle condizioni simili a quelle in cui si trovavano gli Usa tra il 1945 e la fine degli anni 50, con una quota del Pil mondiale vicina al 50 per cento.
Come riconosciuto dallo stesso Presidente Conte, il Covid-19 ha generato uno shock economico comune, e, per farvi fronte, la Germania ha promosso un programma di spese e garanzie pubbliche pari a 750 miliardi. Quando gli shock sono comuni è più difficile mettere in campo strumenti fiscali assicurativi o di mutualizzazione dei rischi come quelli utilizzati dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011. Tuttavia, c’è qualcosa che possiamo imparare dalla crisi del secondo dopoguerra. Così come allora si decise di adottare un approccio molto flessibile al problema della stabilità monetaria, oggi non dovremmo avere paura di coinvolgere la Bce nella lotta contro le conseguenze economiche della pandemia. Finora la Bce ha operato soprattutto fornendo liquidità al settore bancario. Attraverso le banche centrali nazionali, essa detiene circa 2.500 miliardi di attività emesse da istituzioni dell’area Euro e il 20% del totale dei debiti sovrani dell’area. A fine marzo la Lagarde ha annunciato un piano di acquisto di titoli sovrani che arriverà a quasi mille miliardi. Occorre andare oltre questa soglia, almeno per il tempo necessario, e superare i vincoli che frenano gli interventi sul mercato dei debiti sovrani.