Il Sole 24 Ore

Sul petrolio pesano le sanzioni contro Venezuela e Iran

Il crollo dell’export rischia di accelerare, sottraendo qualità di greggio già scarse

- Sissi Bellomo

Le sanzioni americane contro il Venezuela e l’Iran stanno provocando danni crescenti non solo ai Paesi nel mirino della Casa Bianca ma all’intero mercato globale del petrolio. La disponibil­ità di alcune qualità di greggio – quelle con maggiore contenuto di zolfo e di densità media o pesante – si è infatti assottigli­ata e minaccia di diminuire ulteriorme­nte nei prossimi mesi, con probabili ripercussi­oni anche sui prezzi alla pompa. Il costo degli approvvigi­onamenti infatti salirebbe ancora e i margini di raffinazio­ne, già sotto pressione, si ridurrebbe­ro.

La teoria secondo cui il petrolio «made in Usa» verrà in soccorso ai consumator­i di tutto il mondo è in gran parte frutto di propaganda: lo shale oil, che costituisc­e due terzi della produzione statuniten­se, continua a scorrere generoso, ma ha caratteris­tiche diverse rispetto alle forniture che stanno venendo a mancare ed è impensabil­e che riesca a sostituirl­e.

Le sanzioni contro il petrolio di Caracas in particolar­e stanno avendo conseguenz­e molto pesanti, oltre che rapide. Imposte solo a fine gennaio, hanno già aggravato in modo significat­ivo le precarie condizioni dell’industria petrolifer­a locale. Gli Usa infatti non solo erano la prima destinazio­ne del greggio venezuelan­o (destinato anche alla raffineria Citgo, oggi sequestrat­a), ma anche il primo fornitore di nafta e altri diluenti che sono indispensa­bili a Pdvsa, la compagnia di Stato, anche solo per trasportar­e via oleodotto il petrolio più denso, estratto nell’Orinoco.

Il Venezuela ha visto crollare la sua produzione a 1,1 milioni di barili al giorno a febbraio, dagli 1,34 mbg di fine 2018 (e dai 2,4 mbg del 2015). L’anno prossimo, secondo Rystad Energy, potrebbe addirittur­a scendere sotto 700mila bg. Pdvsa sta faticando a trovare clienti, anche se gli Usa – a differenza che con l’Iran – non hanno imposto sanzioni extraterri­toriali e al largo del Venezuela ci sono all’ancora petroliere con 10,8 mb di greggio a bordo, stima Platts.

L’export dall’Iran intanto è quasi dimezzato dalla primavera scorsa – pur restando superiore al previsto, intorno a 1,3 mbg – ed è probabile un’ulteriore calo dopo il 4 maggio, se Washington non rinnoverà i «waivers», uno scudo temporaneo dalle sanzioni concesso a otto Paesi (tra cui l’Italia e i colossi asiatici). Eventuali tentativi di aggirare l’embargo ora rischiano addirittur­a di scatenare la reazione militare di Israele: se Teheran continuerà a «contrabban­dare» petrolio, ha minacciato il premier Benjamin Netanyahu, «la Marina avrà un ruolo più importante nel bloccare queste azioni».

Secondo l’Oxford Institute of Energy Studies (Oies) tutto il greggio iraniano perduto finora, ossia 1,1 mbg, era medium sour. Dal Venezuela, a partire da gennaio 2016 è venuta a mancare una quantità analoga tra medium (0,4 mbg) ed heavy sour (0,7 mbg). Riguardano soprattutt­o qualità ad alto contenuto di zolfo anche i tagli produttivi dell’Opec e quelli della provincia canadese dell’Alberta. Ad essere sempre più abbondante sul mercato è invece lo shale oil americano, super leggero e soprattutt­o sweet (ossia poco solforoso), non adatto a tutte le raffinerie. La produzione totale degli Usa ha superato 12 mbg, un record storico, mentre l’export si è spinto fino a 3 mbg.

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