ITALIA-GERMANIA: LE NOSTRE AZIENDE INVESTONO DI PIÙ
Icostruttori di tecnologie per il packaging italiani e quelli tedeschi hanno sistemi produttivi quasi gemelli, segmentazioni di mercato e di prodotto sovrapponibili, soffrono alla pari per l’elevata ciclicità della domanda e sulle piazze internazionali si scambiano spesso quote di mercato. Insomma, la concorrenza è serratissima. È questa similitudine il primo aspetto che emerge dal rapporto “Packaging machinery manufacturers: italian vs german way to compete for the world’s markets” presentato dall’economista dell’ateneo di Parma, Salvatore Curatolo, in occasione del 2° International Workshop del Leigia, il Laboratorio sull’economia delle imprese di Germania, Italia e Austria creato dall’università ducale per avviare un confronto costante tra competitività, innovazione e politiche industriali dei sistemi manifatturieri sui due versanti alpini.
Ci sono però anche profonde differenze tra i due campioni delle macchine per il packaging. A partire dalla dimensione aziendale: l’Italia ha il doppio delle imprese della Germania (oltre 600 contro meno di 300) a parità di fatturato (intorno ai 7 miliardi di euro), di quota export (circa l’80%) e di occupati (più o meno 30mila). Così come è diversissima l’integrazione verticale, più forte in Germania che in Italia, e questo genera maggiore rigidità e maggior incidenza del costo del lavoro nelle imprese tedesche (hanno un costo di 67mila euro/addetto contro i 61mila nel nostro Paese). Che il nanismo imprenditoriale domestico sia sinonimo di flessibilità e versatilità non è notizia, ma lo è il fatto che nonostante la bassa capitalizzazione, le industrie italiane abbiano una maggior propensione a investire: gli investimenti (e anche la produttività) per addetto sono più alti che nelle omologhe imprese tedesche, complice l’accelerazione su questo fronte in Italia, negli ultimi due anni, sotto la spinta degli incentivi 4.0.
«Player tedeschi e italiani hanno trovato due modi entrambi razionali e profittevoli per affrontare le proprie debolezze: i primi hanno puntato su alti investimenti diretti esteri per ridurre il costo del lavoro attraverso i presidi oltreconfine; gli italiani hanno invece creato cuscinetti di capacità produttiva in patria rinunciando a parte dei margini in cambio di maggior flessibilità e resilienza. E alla fine chiudono sia gli uni sia gli altri con pari profitti», spiega Curatolo.
«Made in Italy e made in Germany sono davvero allo stesso livello, forse noi oggi siamo addirittura più innovativi per prodotto e stiamo sottraendo clienti e quote di mercato ai tedeschi. Il punto è che di fronte all’avanzata dei competitor asiatici non ha senso farsi la guerra tra primo e secondo esportatore e lasciar spazio così ai follower, è meglio allearsi», sottolinea Andrea Malagoli, consigliere delegato del gruppo Ima e vicepresidente Ucima (Unione costruttori italiani macchine automatiche per il confezionamento e l’imballaggio), scelto per guidare il nuovo Gruppo internazionale ISO/TC 313 Packaging Machinery che deciderà gli standard mondiali di macchine e impianti. «Il Gruppo è costituito da otto Paesi partecipanti (Italia, Germania, Francia, Inghilterra, Austria, Svizzera, Usa e Giappone), e altri esterni uditori tra cui Corea del Sud e India, che mirano a definire standard di sicurezza e qualitativi comuni, per migliorare la concorrenza globale e rendere più confrontabili le offerte concorrenti. Abbiamo avuto il primo incontro lo scorso ottobre, ci vorranno un paio d’anni per avere i primi riscontri concreti».