Vecchie e nuove flessibilità (ma tornano vincoli e controlli)
Visto da Bruxelles, si è passati dallo scostamento «netto e chiarissimo» dalle regole Ue del 21 novembre al via libera alla manovra condizionato al puntuale monitoraggio delle misure di correzione del deficit annunciate dal Governo. Visto dal Governo, si è passati dal muro contro muro giocato a suon di violazioni annunciate e perseguite nella prima stesura della manovra - alla ricerca di fatto di un compromesso, che ripercorre lo schema seguito negli ultimi anni e che tuttavia lascia sul campo oltre 9 miliardi di manovra. Il risultato è duplice: da un lato si assiste a una sorta di rivisitazione aggiornata della flessibilità, già ampiamente concessa ai governi Renzi e Gentiloni, ma questa volta a fronte di una notevole riscrittura dei saldi. Dall’altro, si registra la conferma dei vincoli che comunque non cessano di dispiegare i loro effetti, come lascia ben intendere il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, quando parla di soluzione «non ottimale» e rinvia al monitoraggio che sarà attivato già nei primi mesi del nuovo anno. In sostanza il nostro Paese resta un osservato speciale per via dell’alto debito e per una manovra che attende di essere monitorata e verificata sul campo. La buona notizia è che si è evitata la procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo originato dalla violazione della regola del debito. La cattiva notizia è che lo spettro della procedura potrebbe ripresentarsi già nel corso del 2019. La flessibilità è stata utilizzata, dal lato della Commissione, oltre che per le spese per eventi eccezionali anche sulla clausola di salvaguardia 2020-2021 sull’Iva, finora mai ritenuta plausibile e non incorporata nelle stime perché si dava per scontato che sarebbe stata disattivata. Decisiva è stata poi la scelta del Governo di ridurre all’1% la stima di crescita per il 2019, lo 0,5% in meno rispetto alla previsione formulata non più di tre mesi fa. L’impatto diretto è nel calcolo dell’output gap, che misura il livello di crescita potenziale e determina l’entità della correzione strutturale richiesta. Argomento di accese controversie tra Roma e Bruxelles nel corso della passata legislatura, che ora arriva in soccorso al Governo poiché il rallentamento del Pil aumenta l’output gap con ciò rendendo meno oneroso l’aggiustamento richiesto. Inizialmente lo scarto sembrava incolmabile con uno sforamento annunciato del deficit strutturale pari allo 0,8%, rispetto al taglio dello 0,6% previsto dalle regole europee per i paesi ad alto debito e la correzione «minima» dello 0,1 per cento concordata a luglio. Ora si accetta il sostanziale azzeramento dello sforzo strutturale richiesto. Questione però che tornerà a riproporsi con la manovra di Bilancio per il 2020. Quanto al Governo, il dietro front sul deficit nominale imposto da Bruxelles e dai mercati è nei fatti, poiché si è passati dall’iniziale 2,4% al 2,04%, con il saldo finale della manovra che scende di 10 miliardi. Da un lato e dall’altro, la disciplina di bilancio europea è stata “adattata” alle esigenze politiche del momento. Il compromesso finale consente a Bruxelles e ai governi europei di rivendicare il sostanziale rispetto delle regole, grazie alla riscrittura dei saldi della manovra. E consente al Governo di provare a mantenere ferme (se pur decisamente depotenziate rispetto agli stanziamenti iniziali) le due misure cardine della manovra, reddito di cittadinanza e quota 100. La soluzione cui si è giunti premia gli alfieri della trattativa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i ministri dell’Economia e degli Esteri, Giovanni Tria ed Enzo Moavero Milanesi, non a caso ieri a fianco del premier in aula al Senato. E anche questo, fino a pochi giorni fa, era tutt’altro che scontato.
La flessibilità Ue, già concessa a Renzi e Gentiloni, questa volta è data a fronte della riscrittura dei saldi