Sulle e-skill l’Italia deve recuperare il gap con gli altri paesi Ue
Parla Marco Taisch (docente del Politecnico di Milano)
Ai manager chiamati a gestire la globalizzazione dico che serve coraggio e orgoglio nazionale.
Marco Taisch
PROFESSORE
«L’effetto più evidente per l’attività dei manager, con l’avanzare della digitalizzazione in ogni settore, è la possibilità di compiere analisi real time». Dal suo vasto osservatorio, Marco Taisch, professore ordinario alla School of Management del Politecnico di Milano - Manufacturing Group, racconta così l’impatto dell’avanzata della digitalizzazione sul “mestiere” dei manager.
Qual è il primo effetto pratico che riscontra nel day by day? Grazie a strumenti digitali i manager oggi dispongono di dati e informazioni immediate, senza intermediazione. Il vantaggio è una maggiore capacità di prendere decisioni basate su fatti oggettivi, anziché sensazioni e opinioni filtrate dai collaboratori.
Dietro questo vantaggio non crede che si nasconda anche un rischio?
È quello di una deriva verso il “micro management”, in cui il tempo sia impiegato in attività spicciole, quotidiane, anziché dedicarli alla gestione strategica. L’avvento dell’era digitale richiede che i manager sappiano leggere e interpretare i numeri ancora più di prima. Nel campo specifico dei Big data e degli Analytics, questo significa dotarsi di capacità di analisi statistica e quantitativa, per cui servono anche figure specializzate come data scientist o data engineer.
Come andrà investito il tempo “liberato”?
L’impatto della digitalizzazione produrrà però un’altra conseguenza: una serie di attività cognitive ripetitive oggi compiute dai manager, domani potrà essere demandata all’Intelligenza artificiale, con un enorme vantaggio di tempo liberato e da reinvestire in know how e nuove competenze per lo sviluppo strategico. In questo caso il rischio è insito nella pigrizia mentale delle persone: impegnarsi in attività ripetitive è più facile che pensare a costruire il futuro e assumersi la responsabilità delle grandi sfide dell’impresa.
Secondo i dati che emergono puntualmente, ogni anno, anche per le figure più alte c’è un mismatch tra competenze richieste dalle imprese e competenze offerte dai candidati. Come si è arrivati a questa situazione?
Non intravedo un serio mismatch di competenze per le figure di alto livello: i manager italiani mediamente sono preparati per le sfide della competitività. Piuttosto, denoto una carenza di managerialità, capacità di gestione, visione strategica tra i middle manager, su cui è necessario intervenire attraverso un investimento formativo. In generale, la diffusione di tecnologie digitali con una velocità mai vista prima nel mondo dell’impresa comporta, con il rischio che il manager non sia pronto a usarle, la necessità di aggiornamento. Perché il vero mismatch in Italia riguarda le digital skill, irrinunciabili per cogliere le opportunità della quarta rivoluzione industriale: su queste l’Italia ha un vuoto da colmare, un’urgenza generale prima ancora nel mondo blue collar che in quello white collar.
Quali sono i settori a suo avviso più colpiti?
A soffrire l’assenza di adeguate digital skill è in particolare il manufatturiero, il settore che mostra la maggiore crescita, ricerca personale qualificato ma soffre l’assenza di profili adeguati. Più in generale, in tutti i settori c’è un evidente carenza di competenze STEM, anche per lo scarso appealing sulle famiglie italiane di percorsi di studio tecnici. In questo campo l’Italia ha necessità di un forte investimento per recuperare il gap, in particolare tra le professionalità di tipo intermedio.
La formazione continua ha un ruolo anche nella preparazione dei manager e in che modo va affrontato questo tema oggi?
La formazione continua è un elemento imprescindibile nella preparazione e nella carriera del manager. Mi lasci essere provocatorio: bisogna iniziare a preoccuparsi se servono incentivi per far capire a un manager l’importanza dell’aggiornamento, significherebbe assenza di sensibilità per il proprio ruolo. Un lavoro di divulgazione, invece, è urgente per gli imprenditori, i titolari delle migliaia di Pmi italiane, a cui bisogna far capire che la formazione è fondamentale per la competività. In questo contesto, desta sincera preoccupazione il fatto che nell’attuale legge di bilancio sia stato eliminato l’incentivo alla formazione 4.0: un gravissimo errore politico e strategico non solo perché le imprese non avranno a disposizione quei soldi, ma per il rischio che passi il messaggio che la formazione non è poi così importante. Invece è cruciale.
Nel confronto internazionale quali differenze emergono?
Sul fronte manageriale l’Italia ha delle specificità dettate dalle differenze culturali, che costituiscono anche punti di forza. La nostra cultura umanistica aiuta lo sviluppo delle soft skill necessarie a un manager. Gli italiani, a parità di preparazione con colleghi esteri, si distinguono per creatività, capacità di negoziazione, team building, spesso anche spirito di sacrificio. Non rilevo un gap di competenze rispetto all’estero, abbiamo ottime scuole e lo dimostra il fatto che i nostri manager sono spesso richiesti e apprezzati anche da imprese fuori dai confini nazionali.
Di che classe dirigente ha bisogno il nostro paese nelle imprese? Per affrontare le sfide della competitività, indubbiamente c’è bisogno di una classe manageriale di alto profilo. Quello che manca oggi ai manager italiani forse è una maggiore propensione al rischio e la presa di consapevolezza delle potenzialità dell’Italia: il Paese paga, anche ingiustamente, un eccesso di critica nei suoi confronti, e noi stessi siamo i primi detrattori. Ai manager chiamati a affrontare un mondo sempre più globale dico che serve coraggio e orgoglio nazionale.