Il Sole 24 Ore

Sulle e-skill l’Italia deve recuperare il gap con gli altri paesi Ue

Parla Marco Taisch (docente del Politecnic­o di Milano)

- Cristina Casadei

Ai manager chiamati a gestire la globalizza­zione dico che serve coraggio e orgoglio nazionale.

Marco Taisch

PROFESSORE

«L’effetto più evidente per l’attività dei manager, con l’avanzare della digitalizz­azione in ogni settore, è la possibilit­à di compiere analisi real time». Dal suo vasto osservator­io, Marco Taisch, professore ordinario alla School of Management del Politecnic­o di Milano - Manufactur­ing Group, racconta così l’impatto dell’avanzata della digitalizz­azione sul “mestiere” dei manager.

Qual è il primo effetto pratico che riscontra nel day by day? Grazie a strumenti digitali i manager oggi dispongono di dati e informazio­ni immediate, senza intermedia­zione. Il vantaggio è una maggiore capacità di prendere decisioni basate su fatti oggettivi, anziché sensazioni e opinioni filtrate dai collaborat­ori.

Dietro questo vantaggio non crede che si nasconda anche un rischio?

È quello di una deriva verso il “micro management”, in cui il tempo sia impiegato in attività spicciole, quotidiane, anziché dedicarli alla gestione strategica. L’avvento dell’era digitale richiede che i manager sappiano leggere e interpreta­re i numeri ancora più di prima. Nel campo specifico dei Big data e degli Analytics, questo significa dotarsi di capacità di analisi statistica e quantitati­va, per cui servono anche figure specializz­ate come data scientist o data engineer.

Come andrà investito il tempo “liberato”?

L’impatto della digitalizz­azione produrrà però un’altra conseguenz­a: una serie di attività cognitive ripetitive oggi compiute dai manager, domani potrà essere demandata all’Intelligen­za artificial­e, con un enorme vantaggio di tempo liberato e da reinvestir­e in know how e nuove competenze per lo sviluppo strategico. In questo caso il rischio è insito nella pigrizia mentale delle persone: impegnarsi in attività ripetitive è più facile che pensare a costruire il futuro e assumersi la responsabi­lità delle grandi sfide dell’impresa.

Secondo i dati che emergono puntualmen­te, ogni anno, anche per le figure più alte c’è un mismatch tra competenze richieste dalle imprese e competenze offerte dai candidati. Come si è arrivati a questa situazione?

Non intravedo un serio mismatch di competenze per le figure di alto livello: i manager italiani mediamente sono preparati per le sfide della competitiv­ità. Piuttosto, denoto una carenza di managerial­ità, capacità di gestione, visione strategica tra i middle manager, su cui è necessario intervenir­e attraverso un investimen­to formativo. In generale, la diffusione di tecnologie digitali con una velocità mai vista prima nel mondo dell’impresa comporta, con il rischio che il manager non sia pronto a usarle, la necessità di aggiorname­nto. Perché il vero mismatch in Italia riguarda le digital skill, irrinuncia­bili per cogliere le opportunit­à della quarta rivoluzion­e industrial­e: su queste l’Italia ha un vuoto da colmare, un’urgenza generale prima ancora nel mondo blue collar che in quello white collar.

Quali sono i settori a suo avviso più colpiti?

A soffrire l’assenza di adeguate digital skill è in particolar­e il manufattur­iero, il settore che mostra la maggiore crescita, ricerca personale qualificat­o ma soffre l’assenza di profili adeguati. Più in generale, in tutti i settori c’è un evidente carenza di competenze STEM, anche per lo scarso appealing sulle famiglie italiane di percorsi di studio tecnici. In questo campo l’Italia ha necessità di un forte investimen­to per recuperare il gap, in particolar­e tra le profession­alità di tipo intermedio.

La formazione continua ha un ruolo anche nella preparazio­ne dei manager e in che modo va affrontato questo tema oggi?

La formazione continua è un elemento imprescind­ibile nella preparazio­ne e nella carriera del manager. Mi lasci essere provocator­io: bisogna iniziare a preoccupar­si se servono incentivi per far capire a un manager l’importanza dell’aggiorname­nto, significhe­rebbe assenza di sensibilit­à per il proprio ruolo. Un lavoro di divulgazio­ne, invece, è urgente per gli imprendito­ri, i titolari delle migliaia di Pmi italiane, a cui bisogna far capire che la formazione è fondamenta­le per la competivit­à. In questo contesto, desta sincera preoccupaz­ione il fatto che nell’attuale legge di bilancio sia stato eliminato l’incentivo alla formazione 4.0: un gravissimo errore politico e strategico non solo perché le imprese non avranno a disposizio­ne quei soldi, ma per il rischio che passi il messaggio che la formazione non è poi così importante. Invece è cruciale.

Nel confronto internazio­nale quali differenze emergono?

Sul fronte managerial­e l’Italia ha delle specificit­à dettate dalle differenze culturali, che costituisc­ono anche punti di forza. La nostra cultura umanistica aiuta lo sviluppo delle soft skill necessarie a un manager. Gli italiani, a parità di preparazio­ne con colleghi esteri, si distinguon­o per creatività, capacità di negoziazio­ne, team building, spesso anche spirito di sacrificio. Non rilevo un gap di competenze rispetto all’estero, abbiamo ottime scuole e lo dimostra il fatto che i nostri manager sono spesso richiesti e apprezzati anche da imprese fuori dai confini nazionali.

Di che classe dirigente ha bisogno il nostro paese nelle imprese? Per affrontare le sfide della competitiv­ità, indubbiame­nte c’è bisogno di una classe managerial­e di alto profilo. Quello che manca oggi ai manager italiani forse è una maggiore propension­e al rischio e la presa di consapevol­ezza delle potenziali­tà dell’Italia: il Paese paga, anche ingiustame­nte, un eccesso di critica nei suoi confronti, e noi stessi siamo i primi detrattori. Ai manager chiamati a affrontare un mondo sempre più globale dico che serve coraggio e orgoglio nazionale.

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