La scommessa della crescita senza alternative, ma ora misure per fare Pil
Nessuna modifica al quadro macroeconomico definito dal Governo, annuncia il ministro dell’Economia,
Giovanni Tria, all’indomani della
mancata validazione da parte dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Scelta legittima se sostenuta da una modifica degli addendi della
manovra. Da qui al 20 ottobre, quando la legge di Bilancio verrà inviata in Parlamento e a Bruxelles, l’unica strada per rispettare i target di crescita fissati dal Governo, a partire dall’1,5% previsto per il 2019, e ritenuti fuori linea non solo dall’Upb, ma dalla Banca d’Italia, dal Fmi e dalla Commissione europea, è
potenziare le misure per la crescita. Il che vorrebbe dire intervenire appunto sugli addendi, che al momento vedono la manovra da 37
miliardi (22 dei quali in deficit) proiettata a finanziare il reddito di cittadinanza per 10 miliardi compresi i fondi per i centri per l’impiego, la revisione della legge Fornero con annesso avvio della Flat tax per le partite Iva e le assunzioni nelle forze dell’ordine più o meno per la stessa cifra. Cui vanno aggiunti i 12,4 miliardi necessari a evitare l’aumento dell’Iva (le clausole di salvaguardia). Quella che attende il Governo è dunque una doppia scommessa: la prima per aggiungere allo 0,9% di crescita tendenziale per il
2019 (validato dall’Upb) lo 0,6% grazie al “moltiplicatore” auspicato grazie alle misure in via di definizione e al mancato aumento dell’Iva. La seconda, per rendere effettivamente credibile il target dell’1,5% potenziando gli addendi per la crescita. In caso contrario, se si realizzasse lo scenario paventato dalle convergenti analisi prospettiche che vanno emergendo a livello nazionale e internazionale, crollerebbe l’intera impalcatura su cui regge la manovra. Difficile, se non impossibile, con una crescita nei dintorni dell’1% centrare l’obiettivo di deficit nominale 2019 al 2,4%, e ridurre il debito in rapporto al Pil dal 130,9% di quest’anno al 130% e al 126,7% nel 2021. Rivedere gli addendi della manovra vuol dire riconoscere che non vi è un effetto immediato e automatico tra l’uscita dal mondo del lavoro anticipata per quanti opteranno per “quota 100” e la creazione di un pari numero di posti di lavoro. L’occupazione la creano le imprese, e allora varrebbe la pena di rendere più incisiva e consistente la quota di stanziamenti destinati al motore fondamentale degli investimenti pubblici e privati, che possono produrre un “moltiplicatore” tendenzialmente più affidabile (a patto che si riesca
effettivamente a realizzarli) in
termini di incremento della
domanda, e dunque dell’occupazione. Ieri la ricognizione è cominciata con la cabina di regia a palazzo Chigi. Al momento, stando a
quanto prevede la Nota di aggiornamento al Def, gli investimenti fissi lordi, attesi in calo del 2,2% nell’anno in corso, dovrebbero attestarsi al 5,4% nel 2019. Una revisione al ribasso delle stime di crescita renderebbe arduo rispettare anche questa previsione. Il
tutto tenendo conto che, per quel riguarda la finanza pubblica, la riduzione del deficit strutturale (decisivo per il giudizio di Bruxelles) è rinviata al 2022 e che l’inflazione (che impatta sul debito in quanto espresso in termini nominali) viaggia attorno all’1,6%, al di sotto della media europea che è attorno al 2 per cento.