Il Sole 24 Ore

L’erraticità di Trump su esteri e commercio

- Di Adriana Castagnoli

Èpossibile scorgere una chiara strategia e visione nella politica commercial­e ed estera dell’amministra­zione Trump? Difficile dirlo, considerat­e le discordant­i affermazio­ni dei suoi diversi esponenti e la mutevolezz­a del presidente americano che creano perlomeno cacofonia. Si prenda il caso degli accordi di free-trade. Secondo Wilbur Ross, segretario al Commercio, benché si dipinga l’amministra­zione Trump come protezioni­sta, essa mira invece ad accordi con i partner più importanti. Anche se la cancellazi­one del Tpp è stata uno dei primi atti ufficiali di Trump, l’amministra­zione avrebbe deciso diversamen­te con il Ttip aprendo la porta alla possibilit­à di rianimare i negoziati di libero scambio con la Ue. Ma - ha ammonito Ross - la Ue non è un partner privilegia­to. Pertanto, dovrà guadagnars­i l’accordo in competizio­ne con Giappone e Cina.

Dopo aver ottenuto l’oblio della parola «protezioni­smo» nel comunicato del Fmi ad aprile, Trump ha lanciato una national security investigat­ion che potrebbe portare alla resa dei conti globale sull’import dell’acciaio. La decisione di ricorrere a una legge del 1962 che permette al governo Usa di limitare le importazio­ni per ragioni di sicurezza nazionale, mira a dare sostanza alla promessa di favorire l’industria pesante e di mettere «acciaio americano nella spina dorsale del Paese». Si tratta di una scelta cruciale nel momento in cui Trump programma di incrementa­re le spese per la difesa.

Ciò rischia di creare tensioni con la Cina, primo produttore mondiale, proprio quando se ne chiede l’intervento per la questione nordcorean­a. Ma Trump insiste che il dumping dell’acciaio non ha a che fare con Pechino perché è una questione mondiale. Eppure l’industria americana ha biasimato in molte circostanz­e la sovra-capacità cinese per il crollo dei prezzi. Di fatto, gli Usa hanno lanciato ben 152 casi di antidumpin­g sull’acciaio e altri 25 sono in attesa. Altrettant­o contraddit­ori sono i rapporti con Mosca, resi più complicati dagli interessi delle compagnie petrolifer­e americane in Russia. Le risorse di petrolio russo sono fra le più ambite dalle imprese Usa ed europee, ma le sanzioni inibiscono gli americani dallo sviluppare accordi con i russi.

Così, Exxon Mobil ha chiesto una sospension­e delle sanzioni per poter riprendere una joint-venture con il gigante di Stato Rosneft nell’esplorazio­ne del Mar Nero. Anche perché teme di essere tagliata fuori dai competitor europei, innanzitut­to Eni, poiché la Ue prevede casi di esenzione. Ma Trump, sotto la pressione dell’indagine del Congresso sui presunti rapporti con Mosca di membri della sua famiglia e di collaborat­ori politici, oltre che sulle interferen­ze nella campagna presidenzi­ale, dopo strette consultazi­oni con il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, l’ha respinta. Il punto è che le sanzioni, con le quali i governi occidental­i speravano di costringer­e Putin a cambiare piani politici, hanno influito poco sul rallentame­nto dell’economia russa, colpita invece dal simultaneo crollo dei prezzi del greggio.

Le limitazion­i all’accesso a capitali e tecnologie straniere per l’esplorazio­ne dei siti più complessi sono servite parzialmen­te allo scopo. Le compagnie russe hanno trovato modi per condurre avanti comunque le trivellazi­oni. Fra il 2013 e il 2016, la produzione di greggio russo è aumentata almeno del 6%, più del doppio di quella dei Paesi Opec. Di fatto, le sanzioni hanno costretto le compagnie russe ad accrescere la loro competitiv­ità. Gazprom ha registrato un aumento del 21% nei profitti 2016 aiutata anche da un’eccezional­e domanda europea. Perciò il gigante russo continua a perseguire l’obiettivo di accrescere le vendite in Europa; e accelera sulla costruzion­e del North Stream 2 per favorire il trasporto del gas in Germania.

Tutto ciò, mentre le imprese americane di esplorazio­ne e produzione di shale oil e gas, secondo gli esperti, stanno rischiando un profluvio di investimen­ti che deve ancora dimostrare di poter davvero creare valore.

Intanto a tener campo sono i mutamenti d’umore sul Nafta che mostrano quanto sia volatile la politica economica dell’amministra­zione americana. Dopo le bellicose dichiarazi­oni di Trump su un ritiro unilateral­e di Washington dall’accordo di libero scambio con il Messico e il Canada, denunciato come la principale causa di distruzion­e dei posti di lavoro negli Usa, ora il segretario al Commercio Ross asserisce che la priorità per gli Stati Uniti è rinegoziar­e il Nafta. Infatti, il ritiro metterebbe a rischio 1 trilione di dollari di commercio annuale e le catene di fornitura su cui contano molte imprese americane, creando un enorme shock al sistema produttivo.

Così, sulla scena internazio­nale l’unica strategia messa in pratica da Washington appare quella tracciata di volta in volta dalla leadership erratica di Trump e argomentat­a dal suo team.

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