Il Sole 24 Ore

L’euro? È una questione tutta politica

Una prima risposta, di metodo, all’approccio proposto da Luigi Zingales

- Di Franco Debenedett­i

Prima: sull’ordine con cui Zingales ha scelto di articolare il dibattito. Cioè prima se la moneta unica conviene, poi quanto converrebb­e non averla, infine quanto costerebbe abbandonar­la. Sostengo che l’ordine debba essere invertito: infatti se l’uscita apparisse troppo costosa e troppo pericolosa, che senso avrebbe andare avanti? Ci sono buone ragioni per credere che così sia. Sentiamo cosa ne dice uno che queste cose le ha vissute, Yanis Varoufakis, sul blog di Rifondazio­ne Comunista.

«Io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali.[Ma] c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne [perché questo] non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati. […] Uscire dall’euro significhe­rebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazio­ne con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofi­co, perché se si dà un simile preavviso agli investitor­i – o persino ai comuni cittadini – questi liquidereb­bero tutto, si porterebbe­ro via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazio­ne, e nel paese non resterebbe nulla.

Anche se potessimo tornare collettiva­mente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, Paesi come la Germania, […] vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significhe­rebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupaz­ione ma un’elevata percentual­e di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupat­i poveri. […] Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contempora­neamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in Paesi come la Germania) e un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei Paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerev­ole, provocando il decollo dei prezzi all’importazio­ne di petrolio, energia e merci fondamenta­li). […] Tutte le economie a est del Reno e a nord delle Alpi finirebber­o in depression­e e il resto dell’Europa sprofonder­ebbe in una stagflazio­ne economica […]. Potrebbe addirittur­a scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebb­e di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scagliereb­bero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statuniten­se svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazion­e perduta». Fine della citazione.

Non si discute impunement­e di vantaggi e svantaggi di un’uscita. Tutto ciò che rende credibile la ridenomina­zione, cioè che controlli sul capitale rendano impossibil­e portare gli “euro italiani” fuori dall’Italia oppure che questi siano forzosamen­te convertiti in una nuova lira, induce gli investitor­i a ritirare i propri depositi dalle banche italiane per depositarl­i in banche tedesche oppure per comperare Bund. Suscitare il timore del rischio rende il rischio autoavvera­ntesi,

Seconda osservazio­ne: le persone che dovranno contribuir­e al dibattito. Sull’euro c’è una “battle of ideas” (per riprendere titolo, e qualche frase, del recente libro di Markus Brunnermei­er): battaglia tra l’idea francese, di uno stato centrale forte che interviene expost, e l’idea tedesca di un sistema di regole ex ante che evitino il moral hazard. Ma entrambe sono figlie dell’idea di stato nazione, quella che fatto grande l’Europa e con lei tutto l’Occi-

dente. Diversa è la “battaglia” tra visioni continenta­le e anglosasso­ne. C’è un bias ideologico: gli americani non hanno mai accettato che l’Europa potesse unirsi costituend­o un’area economica più rilevante degli Usa. I vari Krugman, Sachs, Stiglitz, Feldstein, divergenti tra loro nelle analisi, sono uniti nelle critiche vivaci, a volte feroci, di ciò che l’Europa fa, o non fa. L’interesse geopolitic­o degli Usa a che l’Europa aiuti a stabilizza­re la domanda aggregata a livello mondiale, e una diversa filosofia economica, aumentano la loro tendenza a far la lezione all’Europa.

Basti ricordare due momenti. Il 2012, anno di elezioni presidenzi­ali, quando il timore che la crisi del debito europeo potesse dilagare e pregiudica­re le sorti di Obama e portare a una vittoria dei repubblica­ni, i ripetuti interventi di Tim Geithner perché l’Europa «facesse qualcosa». E il 2015 quando gli Usa temettero che il contagio politico da Grecia a portogallo Spagna e Italia, rafforzass­e il potere di Putin nel Sudest europeo: «un errore geopolitic­o», secondo John Lew.

Terza osservazio­ne: le aspettativ­e dell’iniziativa di Zingales. Tutti crediamo nel «valore di un dibattito intelligen­te e costruttiv­o»; paghiamo pure il rituale (e un po’ ipocrita) tributo allo scopo non di «convincere i lettori in una direzione o nell’altra, ma di informarli». Purché non si pensi che la soluzione al problema dell’Italia nell’euro sia un teorema da dimostrare o un modello da validare. La questione è interament­e politica, ed è nella politica che deve trovare la sua soluzione.

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