Il Sole 24 Ore

La strada obbligata contro la jihad

- di Ugo Tramballi

Le bombe erano per Bashar Assad ma il messaggio politico era destinato a Vladimir Putin: la Russia non avrebbe più avuto la libertà di manovra di questi ultimi due anni e sarebbe stata responsabi­le dei comportame­nti dei suoi alleati sul campo di battaglia. Ma servono ancora messaggi di questo genere mentre il terrorismo colpisce a Stoccolma, San Pietroburg­o e Londra; a San Bernardino, California come a Mosca?

È evidente che l’ultimo attentato in Svezia fosse stato preparato prima che i missili americani cadessero sulla base siriana. E che anche senza l’atto di forza di Donald Trump, quel mondo informe e inafferrab­ile di ritornati, indottrina­ti, falliti, singoli o padri di famiglia, analfabeti o universita­ri, prima o poi avrebbe colpito di nuovo, ovunque. Ma l’ultimo attentato, solo pochi giorni dopo quello alla metropolit­ana di San Pietroburg­o, suscita una constatazi­one banale quanto inattaccab­ile: alla fine siamo tutti sulla stessa barca.

Dunque ai più sembra sempre meno comprensib­ile la logica della difficile collaboraz­ione che diventa competizio­ne fra russi e americani a Raqqa, il fronte siriano della lotta all’Isis, dove vincere, almeno tecnicamen­te, non sarebbe un’impresa impossibil­e. Non occorre essere degli specialist­i del Levante mediorient­ale per capire quanto il caos siriano sia in grado di produrre quasi a getto continuo instabilit­à, terroristi e imitatori. Ma l’attentato a Stoccolma e nemmeno i prossimi prevedibil­i in qualsiasi posto fra le coste dell’Atlantico alla catena degli Urali, non trasformer­anno la sfida fra Mosca e Washington in sincera collaboraz­ione.

Il confronto fra loro continua a essere un gioco a somma zero: uno vince l’altro perde, senza compromess­i. Una delle leggende metropolit­ane di maggior successo è che Vladimir Putin sia l’unico a combattere il terrorismo e che il regime di Assad sia l’unica alternativ­a al caos del Paese. Solo da pochi mesi i russi si sono applicati un po’ di più nel bombardare i terroristi dell’Isis, continuand­o comunque a colpire come prima gli oppositori al regime di Damasco. Quanto ad Assad, la sua brutalità è una delle principali cause del moltiplica­rsi del terrorismo.

Dall’altra parte del fronte continua l’ondivago comportame­nto americano: dalla riluttanza di Barack Obama che considerav­a non prioritari­o per gli Usa un caos come quello siriano diventato una miniera di terrorismo e dal quale milioni di profughi fuggono in Europa; all’imprevedib­ilità di Trump che nel giro di pochi mesi ha proclamato l’uscita americana dal Medio Oriente, il suo ritorno ma solo per combattere una specie di guerra santa contro il terrorismo ed ora, come i suoi predecesso­ri, si fa coinvolger­e direttamen­te – per lui è la sua prima guerra, un battesimo del fuoco - nel grande caos del Levante.

Il bombardame­nto americano non migliorerà né peggiorerà lo stato della Siria: domani tutto tornerà “normale” come il giorno precedente. Russi e americani, votati alla concorrenz­a anche in tempo di pace, continuera­nno a spiarsi come ai vecchi tempi della Guerra fredda quando forse avevamo meno paura del nostro futuro.

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