Dai numeri del Pil agli indici del benessere
In una conferenza sul futuro dell’Europa organizzata dall’Asvis (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile) il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non ha lesinato critiche all’assetto attuale delle politiche della Ue: se l’Europa, che «spesso è stata all’avanguardia sul fronte dell’equità e dell’inclusione» non farà «della crescita inclusiva la sua bandiera», allora «sarà sempre più percepita come il problema invece della soluzione», ed è «compito dei Paesi porre, anche sbattere a volte, questi temi sul tavolo ed evitare che si discuta solo di dettagli tecnici che rendono la vita difficile, talvolta più del necessario».
Un utile auspicio per una ripartenza che ha trovato espressione nella cerimonia del sessantesimo anniversario del Trattato di Roma. Ma cosa c’è dietro questo viatico, che ha portato anche all’inclusione, nel prossimo Documento di economia e finanza (Def), di una serie di indicatori, diversi dalle aride cifre del Pil e dei deficit, che riguardano l’equità e la sostenibilità ambientale?
Dietro ad auspici e viatici, a preoccupazioni e critiche, a proposte e propositi, c’è il più grande punto interrogativo di questi anni: quali sono le cause, prossime e remote, dell’ondata di populismo che ha investito il mondo occidentale? Un’ondata che politici e sociologi non avevano previsto, così come gli economisti non avevano previsto la Grande recessione. Non si può dire che questo diffuso malcontento dipenda dalla scarsa crescita, dato che riguarda sia Paesi che stagnano, come l’Italia, sia Paesi in cui la crescita è soddisfacente, come la Germania, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Non si può dire che dipenda dalla disoccupazione, perché quella marea montante di protesta si manifesta sia in Paesi ad alti che a bassi tassi di disoccupazione. Né si può dire che dipenda da altri problemi economici, come l’inflazione (che non c’è) o l’alto costo del danaro (che invece è basso).
Vi è una causa remota e una causa prossima. La causa remota sta nelle crescenti diseguaglianze, dietro a cui stanno sia fattori geopolitici (la globalizzazione) che tecnologici (i “premi” distribuiti dall’economia della conoscenza). Non da oggi crescono le diseguaglianze, ma a un certo punto si è creato un “effetto di soglia”, quando le disparità raggiungono un punto oltre il quale destano frustrazioni, tensioni, invidie sociali...
Come succede spesso, l’arte aveva precorso la scienza. Scrittori e poeti sapevano, meglio degli economisti, quanto sia importante la distanza fra ricchi e poveri nella trama e nell’ordito della convivenza civile; e quindi, alfine, nella performance dell’eco- nomia. E non solo scrittori e poeti, ma anche uomini e donne pensosi dei destini della patria. Marguerite Yourcenar, nello stupendo libro «Memorie di Adriano», fa parlare in prima persona il grande imperatore e gli mette in bocca queste parole: «Una parte dei nostri mali dipende dal fatto che troppi uomini sono oltraggiosamente ricchi, o disperatamente poveri».
La causa prossima sta nelle crisi migratorie, che stanno ridisegnando il volto etnico di molti Paesi e anche qui fanno scattare inquietudini, crisi di identità, ripulse... È quindi giusto che nei programmi di riforme – a livello italiano come a livello europeo – sia dato spazio ad altre dimensioni dello “star bene”, dato che la crescita del Pil (o la sua decrescita), i disavanzi pubblici (o gli avanzi) o altre grandezze dell’economia tagliate con l’accetta non bastano più a dar conto del benessere di una nazione.
Già la legge di riforma del bilancio, approvata il luglio scorso, aveva introdotto l’obbligo di allegare al Def una serie di indicatori di benessere, tratti dai numerosi indici già elaborati dall’Istat per descrivere lo “star bene” della nazione.
Di queste descrizioni quantitative dello “star bene” Il Sole 24 Ore, attraverso le classifiche annuali delle province italiane, è stato un pioniere, e oggi queste cifre – non più aride – prendono nella politica economica il posto che loro compete. Ed è importante che questo posto diventi un podio, ove, accanto alle politiche monetarie e a quelle di bilancio, si affianchino quelle dimensioni di inclusione e di equità la cui assenza rischia di scardinare i fragili equilibri di una società divisa, dando spazio a movimenti politici capaci di incanalare la protesta ma incapaci di proporre soluzioni.