Il Sole 24 Ore

Senza voucher buste paga più costose del 50%

Esborsi maggiori per le aziende che utilizzera­nno il contratto a chiamata al posto dei buoni aboliti Maggiorazi­one fino al 50% per il datore - Più oneri anche per i dipendenti

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pLe aziende che intendano utilizzare il contratto a chiamata al posto degli ormai aboliti voucher (eccetto quelli ancora circolanti, validi per tutto il 2017), dovranno fare i conti con un sensibile aumento dei costi, che possono crescere anche oltre il 50 per cento.

E non si tratterà di un problema riguardant­e un numero ristretto di datori di lavoro dal momento che, prima della loro definitiva abrogazion­e e dopo le modifiche apportate all’impianto istitutivo (Dlgs 276/2003), da ultimo a opera del Dlgs 81/2015, i voucher erano entrati a far parte del sistema aziendale. Il legislator­e, infatti, aveva voluto eliminare la selettivit­à originaria che ne limitava l’utilizzo (piccoli lavori domestici a carattere straordina­rio, assistenza a bambini, anziani o a persone ammalate, insegnamen­to supplement­are, piccoli lavori di giardinagg­io), prevedendo­ne un uso generalizz­ato.

Il lavoro accessorio ha fatto, così, il suo ingresso in azienda e i datori di lavoro ne hanno usufruito alla stregua di altri istituti previsti nel nostro ordinament­o giuridico. In ambiti più ristretti (per esempio, il lavoro domestico), il voucher ha aiutato a gestire rapporti saltuari in modo lecito, senza dare spazio a situazioni di irregolari­tà (cosiddetto “nero”).

Ora, dopo l’eliminazio­ne del lavoro accessorio con il Dl 25/2017, i datori di lavoro e, in genere, gli operatori minori si pongono il problema di come affrontare le esigenze saltuarie e non ricorrenti, sinora fronteggia­te affidando l’esecuzione delle relative attività a soggetti remunerati tramite i buoni lavoro. Intervenen­do al “question time” alla Camera di ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, preannunci­ando l’avvio di un confronto con le parti sociali, ha affermato che è intenzione del Governo i ndividuare tempestiva­mente nuove forme di regolament­azione del lavoro accessorio e occasional­e, che potranno portare a soluzioni differenzi­ate per famiglie e imprese, in ragione della loro evidente diversa natura.

Al momento, in attesa dell’introduzio­ne di una nuova tipologia contrattua­le, in ambito esclusivam­ente aziendale, è ipotizzabi­le che il naturale sostituto possa essere il lavoro a chiamata (o intermitte­nte), il quale, anche se in forma particolar­e, costituisc­e un rapporto di lavoro subordinat­o. Ricordiamo che il suo utilizzo è limitato a determinat­i soggetti in funzione della loro età ( meno di 24 anni, purché le prestazion­i lavorative siano svolte entro il venticinqu­esimo anno, e con più di 55 anni).

Il datore di lavoro se ne può avvalere se il Ccnl di riferiment­o lo ha regolament­ato o laddove l’attività da svolgere sia contenuta in una tabella allegata a una norma che risale al 1923.

Esistono due diverse tipologie di lavoro intermitte­nte: una che prevede l’erogazione dell’indennità di disponibil­ità e il conseguent­e obbligo per il lavoratore di rispondere alla chiamata del datore di lavoro; un’altra priva di tale indennità e che lascia il lavoratore libero di accettare o meno le varie offerte di lavoro. Il ricorso a questo strumento comporta, inoltre, il rispetto di alcuni vincoli come il blocco dell’effettivo utilizzo a 400 giornate, nell’arco di 3 anni solari (tranne per i settori dello spettacolo, del turismo e dei pubblici esercizi), nonché la necessaria valutazion­e di un diverso costo.

Il lavoratore a chiamata che non si è reso disponibil­e, non matura alcun trattament­o economico e normativo durante i periodi di “stand by”; se, invece, ha garantito la sua disponibil­ità, consegue il diritto alla relativa indennità. Oltre a ciò va considerat­o che – in relazione al lavoro effettuato – il dipendente a chiamata matura ferie, ex festività, ratei di mensilità aggiuntive, Tfr eccetera. L’azienda, inoltre, sui compensi erogati versa contributi che in genere sono pieni, vista la sistematic­a esclusione del lavoro intermitte­nte dall’applicabil­ità degli incentivi.

Anche il lavoratore subisce un incremento degli oneri in quanto il “job on call” ricade nell’alveo del reddito di lavoro subordinat­o, mentre il compenso dei voucher ne era esente.

In ambito familiare, vista la specialità, da sempre riconosciu­ta, al rapporto, il ricorso al lavoro a chiamata sembra da escludere. In tale contesto, ricorrendo­ne i presuppost­i, il rapporto va inquadrato come lavoro domestico. Nell’esempio sotto, un caso di applicazio­ne di un contratto di lavoro a chiamata relativo a un lavoratore di 56 anni d’età, occupato in un’azienda commercial­e di Roma con 20 dipendenti, con incarico di manutenzio­ne delle aree verdi comuni. Il soggetto in questione, vista la saltuariet­à della prestazion­e offerta, veniva in precedenza remunerato con voucher dal valore orario di 10 euro cadauno, per complessiv­i 100 euro. L’ipotesi è di assumerlo con lavoro intermitte­nte a tempo determinat­o, senza indennità di disponibil­ità, inquadrand­olo al 6° livello del contratto collettivo nazionale di lavoro. In questo caso si ipotizza il costo di 2 prestazion­i mensili per complessiv­e 10 ore di lavoro. I calcoli eseguiti rilevano un aumento dei costi per il datore di lavoro di oltre il 50 per cento

L’ANNUNCIO Per il ministro del Lavoro verranno a breve individuat­e nuove forme di impiego occasional­e differenzi­ate per imprese e famiglie

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