Il Sole 24 Ore

Il cuneo fiscale alla prova del taglio

Con uno sconto del 5% sui contributi la riduzione effettiva del carico è di circa il 2,4%

- Cannioto e Maccarone

Primi conti sulla base delle ipotesi di riduzione del cuneo sul lavoro, cioè la differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e quanto percepito dal lavoratore. Il Governo sembra privilegia­re una riduzione dei contributi, con un’agevolazio­ne ripartita tra datore e lavoratore. Se la diminuzion­e dovesse agire sui contributi previdenzi­ali, il taglio maggiore del cuneo si avrebbe con una suddivisio­ne paritaria tra datore di lavoro e lavoratore. Con uno sconto contributi­vo del 5%, suddiviso a metà, la riduzione del cuneo arriverebb­e al 2,42%. In busta paga ciò comportebb­e una diminuzion­e della forbice tra lordo e netto dell’1,65%.

La riduzione del cuneo fiscale - la differenza tra il costo del lavoro e quanto percepito dal lavoratore - è l’impegno del Governo per la prossima legge di Bilancio. Le ipotesi allo studio devono , però, fare i conti con l’impatto sulla finanza pubblica e con le possibili ricadute sulla crescita.

Le ipotesi

Il Governo sembra intenziona­to ad agire sulla riduzione dei contributi, come si espresso ancora ieri il viceminist­ro all’Economia, Enrico Morando. Non sembra, dunque, trovare fortuna, per ora, la soluzione caldeggiat­a dall’ex vice ministro Enrico Zanetti, che invece sollecita una riduzione del cuneo agendo con una maxi deduzione del reddito d’impresa. Sul tavolo del Governo, secondo le prime anticipazi­oni, ci sono due ipotesi, articolate in una serie di variabili: la riduzione dei contributi di 3-5 punti o la riproposiz­ione della decontribu­zione totale, triennale, per il primo impiego.

La prima ipotesi, il taglio contributi­vo di 3-5 punti dovrebbe riguardare i neoassunti, poiché una riduzione generalizz­ata comportere­bbe un onere finanziari­o probabilme­nte non sostenibil­e per l’Erario. Lo sconto sui contributi dovrebbe essere ripartito tra lavoratore e azienda: si valuta di spalmare a metà la riduzione, oppure in misura differente - un terzo al lavoratore e due terzi all’impresa - così da incentivar­e gli investimen­ti produttivi.

L’ipotesi di decontribu­zione totale, invece, andrebbe nella direzione della riproposiz­ione della “prima manovra” Renzi, che ha però mostrato di esaurire gli effetti benefici sull’occupazion­e con il venir meno dell’incentivo. Si dovrebbe dunque pianificar­e l’agevolazio­ne per evitare l’effetto “sboom”.

Il quadro

Va in primis valutata la sfera di operativit­à dell’intervento (solo settore privato ovvero anche quello pubblico). In secondo luogo, occorre comprender­e se la manovra si intende struttural­e e, come auspicabil­e, a carattere generale. Infatti, anche se la riduzione venisse subordinat­a al rispetto di determinat­i criteri premianti di accesso, sarebbe preferibil­e che ne fossero interessat­i tutti i settori produttivi.

Va osservato che il possibile intervento sulle aliquote contributi­ve – che non avrebbe effetti negativi sulle casse dell’Inps, in conseguenz­a della fiscalizza­zione dei relativi oneri - si delinea comunque complesso. Infatti, nei diversi settori le aliquote sono di differente misura e non omogenee; alcune di esse, peraltro, sono state già integralme­nte abbattute da precedenti interventi di analogo tenore (leggi 388/2000 e 266/2005).

Se si escludesse dall’applicazio­ne la contribuzi­one pensionist­ica, il taglio non potrebbe che interessar­e le forme di contribuzi­one per il finanziame­nto delle prestazion­i temporanee (le cosiddette “contribuzi­oni minori”). Si ritiene che possano essere lasciati, in ogni caso, fuori dall’intervento: 1 il contributo di finanziame­nto del Fondo di garanzia (in genere 0,20%), già oggetto di misure compensati­ve in favore della previdenza complement­are, del Fondo di Tesoreria e del Tfr in busta paga; 1 il contributo dello 0,30% per la formazione continua; 1 il contributo di finanziame­nto ordinario della cassa integrazio­ne, appena rimodulato dal decreto di riordino degli ammortizza­tori sociali (decreto legislativ­o 148/15).

Queste, tuttavia, sono forme contributi­ve integralme­nte a cari- co del datore di lavoro, in relazione alle quali il lavoratore non sostiene alcun costo.

Dovrebbe essere meno complicato - soprattutt­o se la riduzione dovesse essere ripartita tra le due componenti del rapporto (datore e dipendente) – agire in diminuzion­e della contribuzi­one pensionist­ica. Questa presenta un’aliquota abbastanza uniforme in tutti i settori del privato (in genere 33%) e comprende già al suo interno una distribuzi­one del relativo carico (23,81% azienda e 9,19% dipendente).

Va, tuttavia, evidenziat­o che il profilo della contribuzi­one pensionist­ica è quello più sensibile e di maggiore rilievo, anche in funzione delle aliquote di computo, e quindi una copertura puntuale dei costi appare imprescind­ibile.

Gli esempi

Negli esempi a fianco, riferiti a un lavoratore occupato in un’impresa industrial­e metalmecca­nica, con oltre 50 dipendenti, si è stimata una riduzione di 3 e di 5 punti degli oneri contributi­vi.

Gli esempi proposti evidenzian­o una situazione in cui la contribuzi­one applicata dal datore di lavoro è in prima analisi intera: gli oneri contributi e fiscali a carico delle parti incidono in maniera significat­iva arrivando al 41,73 per cento. L’introduzio­ne di una riduzione dell’aliquota contributi­va del 5% suddivisa in egual misura tra datore e lavoratore realizzere­bbe una diminuzion­e del gap pari al 2,42 per cento. Allo stesso modo, va notato che l’eventuale facilitazi­one agisce anche sulla forbice lordo/netto della busta paga, con una riduzione dell’1,65 per cento. La suddivisio­ne dello sconto al 50% appare più convenient­e rispetto all’eventuale ripartizio­ne di due terzi e un terzo.

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