Ma Washington già utilizza misure unilaterali di tutela
Washington affila le armi per difendere le proprie imprese dalla «concorrenza sleale» di Cina, Messico e degli altri Paesi «che rubano posti di lavoro all’America», in linea con l’aggressiva politica commerciale teorizzata da Donald Trump e dai più “falchi” tra i suoi consiglieri. Secondo quanto riportato dal Financial Times, la nuova amministrazione avrebbe chiesto all’ufficio del rappresentante per il Commercio (membro dell’Esecutivo, che assiste e consiglia il presidente sul commercio internazionale) di studiare i meccanismi legali esistenti per adottare unilateralmente sanzioni contro i Paesi che hanno politiche commerciali scorrette, o magari dirottano il tasso di cambio, con l’obbiettivo di varare ritorsioni, saltando il sistema giurisdizionale della Wto.
Non si tratta ancora dell’uscita dall’Organizzazione, minacciata a più riprese dallo stesso Trump. Del resto, nonostante la potenza economica degli Stati Uniti, abbandonare il sistema di regole della Wto potrebbe essere rischioso anche per loro, dato che aprirebbe la strada a una sorta di far west commerciale. L’obiettivo, per ora, sarebbe quello di saggiare le possibilità di aggirare il sistema di risoluzione delle dispute che fa capo all’Organizzazione mondiale del commercio. E che vede proprio gli Stati Uniti tra i più assidui frequentatori, con 114 azioni promosse (19 contro l’Unione Europea) e 129 nelle quali sono accusati da altri Paesi di violare le regole della Wto (33 dalla Ue, 16 dal Canada, 10 dalla Cina). In 137 casi compaiono come parte terza.
Margini unilaterali di azione esistono, in effetti, già oggi, consentiti dalla stessa Wto. Tocca poi a chi le subisce fare ricorso per farle dichiarare illegittime. Come spiega Claudio Dordi, docente di diritto internazionale della Bocconi, «ci sono tre misure, antidumping, antisovvenzioni e di salvaguardia. Gli Usa hanno già usato tutti questi strumenti e per l’acciaio, in particolare, hanno utilizzato la clausola di salvaguardia all’inizio degli anni 2000, per poi perdere la causa alla Wto. Tuttavia, tra il momento in cui si applicano le tariffe e il momento in cui si perde la causa, possono passare anni e le conseguenze non sono così gravi, in quanto l’obbligo è solo quello di annullare le misure illegittime. Questo aveva consentito agli Usa di proteggere il settore dell’acciaio per 3-4 anni. Ma ci sono tanti casi».
Un altro esempio. Nel 2009, in seguito alle proteste dei produttori locali contro il boom di importazioni di pneumatici dalla Cina, l’amministrazione Obama impose un dazio del 35% il primo anno, 30% il secondo e 25% il terzo. Pechino si appellò alla Wto affinché il dazio fosse dichiarato illegale, ma perse il ricorso, perché secondo «il meccanismo di salvaguardia» previsto dall’Organizzazione, è legittimo imporre limiti temporanei alle importazioni, in caso di un loro repentino aumento che metta a rischio i produttori locali.
Trump sembra però voler forzare questi meccanismi al fine di ridurre l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti: circa 502 miliardi di dollari nel 2016, che salgono a 734 se si tiene conto solo dello scambio di beni (i servizi generano un surplus di 232 miliardi). Per questo, amministrazione e parlamentari repubblicani hanno già messo in cantiere una border adjustment tax che non sarebbe troppo diversa da un dazio generalizzato su tutte le importazioni e da un sussidio all’export. Una misura che sarebbe sicuramente bocciata dalla Wto.
La principale argomentazione a sostegno della tassa di confine è che metterebbe fine a una discriminazione che avviene ai danni delle imprese americane attraverso l’Iva. Tra le maggiori economie, gli Usa sono l’unico Paese a non avere questa tassa a livello nazionale, che impone un prelievo sulle importazioni, ma accorda un rimborso a chi esporta. L’Iva, però, si applica sia sui beni prodotti localmente che sulle importazioni, quindi non è discriminante nei confronti dell’import. Al contrario, una tassa di confine colpirebbe solo i prodotti importati. L’Iva, inoltre, non è un sussidio alle esportazioni, mentre la tassa di confine pensata da Washington si comporterebbe come tale.
Le critiche all’Organizzazione per il commercio e i tentativi di aggirarla, per poi eventualmente abbandonarla, fanno eco a quelle espresse su Nato e Onu e sono la declinazione in chiave commerciale del “sovranismo” di Trump. Un Paese che entra nella Wto, accetta di rispettarne regole e decisioni, non solo sui dazi, ma anche sulle politiche interne (barriere non tariffarie, sussidi), che secondo l’organizzazione nascondano strumenti protezionistici. Aderendo alla Wto, gli Usa hanno rinunciato a parte della propria sovranità. Trump vuole riprendersela.
LA TENTAZIONE Sullo sfondo resta la minaccia di uscire dall’organizzazione per avere mani libere su dazi e sussidi