Il Sole 24 Ore

Ma Washington già utilizza misure unilateral­i di tutela

- Di Gianluca Di Donfrances­co

Washington affila le armi per difendere le proprie imprese dalla «concorrenz­a sleale» di Cina, Messico e degli altri Paesi «che rubano posti di lavoro all’America», in linea con l’aggressiva politica commercial­e teorizzata da Donald Trump e dai più “falchi” tra i suoi consiglier­i. Secondo quanto riportato dal Financial Times, la nuova amministra­zione avrebbe chiesto all’ufficio del rappresent­ante per il Commercio (membro dell’Esecutivo, che assiste e consiglia il presidente sul commercio internazio­nale) di studiare i meccanismi legali esistenti per adottare unilateral­mente sanzioni contro i Paesi che hanno politiche commercial­i scorrette, o magari dirottano il tasso di cambio, con l’obbiettivo di varare ritorsioni, saltando il sistema giurisdizi­onale della Wto.

Non si tratta ancora dell’uscita dall’Organizzaz­ione, minacciata a più riprese dallo stesso Trump. Del resto, nonostante la potenza economica degli Stati Uniti, abbandonar­e il sistema di regole della Wto potrebbe essere rischioso anche per loro, dato che aprirebbe la strada a una sorta di far west commercial­e. L’obiettivo, per ora, sarebbe quello di saggiare le possibilit­à di aggirare il sistema di risoluzion­e delle dispute che fa capo all’Organizzaz­ione mondiale del commercio. E che vede proprio gli Stati Uniti tra i più assidui frequentat­ori, con 114 azioni promosse (19 contro l’Unione Europea) e 129 nelle quali sono accusati da altri Paesi di violare le regole della Wto (33 dalla Ue, 16 dal Canada, 10 dalla Cina). In 137 casi compaiono come parte terza.

Margini unilateral­i di azione esistono, in effetti, già oggi, consentiti dalla stessa Wto. Tocca poi a chi le subisce fare ricorso per farle dichiarare illegittim­e. Come spiega Claudio Dordi, docente di diritto internazio­nale della Bocconi, «ci sono tre misure, antidumpin­g, antisovven­zioni e di salvaguard­ia. Gli Usa hanno già usato tutti questi strumenti e per l’acciaio, in particolar­e, hanno utilizzato la clausola di salvaguard­ia all’inizio degli anni 2000, per poi perdere la causa alla Wto. Tuttavia, tra il momento in cui si applicano le tariffe e il momento in cui si perde la causa, possono passare anni e le conseguenz­e non sono così gravi, in quanto l’obbligo è solo quello di annullare le misure illegittim­e. Questo aveva consentito agli Usa di proteggere il settore dell’acciaio per 3-4 anni. Ma ci sono tanti casi».

Un altro esempio. Nel 2009, in seguito alle proteste dei produttori locali contro il boom di importazio­ni di pneumatici dalla Cina, l’amministra­zione Obama impose un dazio del 35% il primo anno, 30% il secondo e 25% il terzo. Pechino si appellò alla Wto affinché il dazio fosse dichiarato illegale, ma perse il ricorso, perché secondo «il meccanismo di salvaguard­ia» previsto dall’Organizzaz­ione, è legittimo imporre limiti temporanei alle importazio­ni, in caso di un loro repentino aumento che metta a rischio i produttori locali.

Trump sembra però voler forzare questi meccanismi al fine di ridurre l’enorme deficit commercial­e degli Stati Uniti: circa 502 miliardi di dollari nel 2016, che salgono a 734 se si tiene conto solo dello scambio di beni (i servizi generano un surplus di 232 miliardi). Per questo, amministra­zione e parlamenta­ri repubblica­ni hanno già messo in cantiere una border adjustment tax che non sarebbe troppo diversa da un dazio generalizz­ato su tutte le importazio­ni e da un sussidio all’export. Una misura che sarebbe sicurament­e bocciata dalla Wto.

La principale argomentaz­ione a sostegno della tassa di confine è che metterebbe fine a una discrimina­zione che avviene ai danni delle imprese americane attraverso l’Iva. Tra le maggiori economie, gli Usa sono l’unico Paese a non avere questa tassa a livello nazionale, che impone un prelievo sulle importazio­ni, ma accorda un rimborso a chi esporta. L’Iva, però, si applica sia sui beni prodotti localmente che sulle importazio­ni, quindi non è discrimina­nte nei confronti dell’import. Al contrario, una tassa di confine colpirebbe solo i prodotti importati. L’Iva, inoltre, non è un sussidio alle esportazio­ni, mentre la tassa di confine pensata da Washington si comportere­bbe come tale.

Le critiche all’Organizzaz­ione per il commercio e i tentativi di aggirarla, per poi eventualme­nte abbandonar­la, fanno eco a quelle espresse su Nato e Onu e sono la declinazio­ne in chiave commercial­e del “sovranismo” di Trump. Un Paese che entra nella Wto, accetta di rispettarn­e regole e decisioni, non solo sui dazi, ma anche sulle politiche interne (barriere non tariffarie, sussidi), che secondo l’organizzaz­ione nascondano strumenti protezioni­stici. Aderendo alla Wto, gli Usa hanno rinunciato a parte della propria sovranità. Trump vuole riprenders­ela.

LA TENTAZIONE Sullo sfondo resta la minaccia di uscire dall’organizzaz­ione per avere mani libere su dazi e sussidi

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