Il Sole 24 Ore

L’esodo delle magistrate che «cambia» la giustizia

Nell’ultimo biennio hanno lasciato in 56 tra i 52 e i 69 anni - Nel mirino carrierism­o e burocratiz­zazione

- Di Donatella Stasio

L’onda “rosa” della magistratu­ra rischia l’effetto risacca: sembra infatti rifluire verso il mare, come respinta da un ostacolo, lasciando un vuoto che non è solo numerico ma di qualità della giurisdizi­one. Nell’ultimo biennio, infatti, si è verificato un esodo significat­ivo delle magistrate. Donne che hanno scelto di appendere la toga al chiodo prima dei 70 anni, la deadline stabilita da Renzi a fine 2014 per la pensione, in ossequio al “ricambio generazion­ale”. Se ne contano ben 56.

In quattro casi la scelta è maturata addirittur­a tra i 52 e i 59 anni, più spesso (33 casi) tra i 60 e i 65 anni, mentre, per 19 di loro, si colloca tra i 66 e 69 anni. Né, a frenare l’esodo, è servito l’aumento (scontato) delle nomine “rosa” a incarichi direttivi e semidirett­ivi (rispettiva­mente il 25% e il 37% del totale, nel biennio); anzi, la prospettiv­a di una poltrona non sembra attirare particolar­mente le donne né invogliarl­e a restare in servizio, anche quando l’ambìto traguardo è un’aspettativ­a legittima e concreta.

Sia chiaro: l’esodo non risparmia neanche gli uomini (114 le uscite anticipate, in prevalenza tra i 66 e i 69 anni) ma quello delle donne, pur numericame­nte inferiore, è complessiv­amente più significat­ivo, considerat­i sia la maggiore “anzianità” di servizio dei colleghi uomini sia, soprattutt­o, il trend della progressiv­a femminiliz­zazione di questa categoria profession­ale nella fase dell’ingresso.

Le donne, ammesse in magistratu­ra soltanto nel 1963, oggi già sono il 52% delle toghe in servizio ed aumentano ad ogni concorso. In prospettiv­a, dunque, è probabile che diventino la stragrande maggioranz­a.

Ecco perché il dato sull’esodo rosa è preoccupan­te e non va sottovalut­ato. Racconta molte cose, che impongono una riflession­e politica e istituzion­ale.

Motivazion­i personalis­sime si intreccian­o con altre di diversa natura. Anzitutto, la progressiv­a ed eccessiva burocratiz­zazione del lavoro, che ha spostato il baricentro dall’attività giurisdizi­onale a quella amministra­tiva: l’«ossessione per la produttivi­tà», scandita quasi mensilment­e da relazioni, rendiconta­zioni, statistich­e, accentua la burocratiz­zazione del giudice e dei dirigenti a scapito dell’attività giurisdizi­onale vera e propria.

L’opinabilit­à delle scelte del Csm, poi, crea sfiducia anche in chi avrebbe in tasca la nomina a un direttivo o semidirett­ivo: al di là del dato politico di una classe dirigente della magistratu­ra ridisegnat­a dal Csm per i prossimi 8 anni (4+4) con i 520 incarichi di vertice conferiti per coprire i vuoti creati d’emblée con l’abbassamen­to dell’età pensionabi­le (da 75 a 70), la base dei magistrati (composta in gran parte da donne) a stento riconosce le logiche seguite dal Consiglio ora che l’anzianità è di- ventata un criterio meno stringente.

A ciò si aggiunga l’enorme onere gravante sui capi degli uffici giudiziari sul fronte organizzat­ivo, soprattutt­o per la carenza cronica di risorse, in particolar­e umane (mancano circa 9mila cancellier­i e 1200 magistrati).

Non meno rilevante è la rigidità del sistema di uscita, per l’assenza di meccanismi flessibili di permanenza dei pensionabi­li o prepension­abili, che consentire­bbero invece al servizio pubblico di non privarsi di quelle profession­alità ma di utilizzarl­e, ad esempio, per la formazione, l’organizzaz­ione, il coordiname­nto delle buone prassi.

Infine, le donne hanno una cultura della carriera e una concezione del potere diverse da quelle tipicament­e maschili e ciò contribuis­ce a rendere meno appetibili i posti direttivi e semidirett­ivi, determinan­do così una sorta di esodo anche da quelli.

Ma ci sono altri elementi ancora. Come gli oneri che continuano a pesare prevalente­mente, se non esclusivam­ente, sulle donne giunte tra “il non più e il non ancora”: non più (anagrafica­mente) giovani, ma non ancora (anagrafica­mente) vecchie, spesso costrette a farsi carico di un welfare familiare indispensa­bile in mancanza di supporti pubblici.

Donne sposate, divorziate o single; madri di figli non ancora indipenden­ti o all’inizio di un incerto percorso profession­ale; a volte già nonne ma ancora figlie, di vecchi genitori da accudire. Profession­iste di spessore, indipenden­ti, che hanno investito in un lavoro che amano e su cui hanno fatto affidament­o, quasi mai coinvolte in cordate politiche e che frequentem­ente si vedono scavalcate da colleghi, certamente stimabili, ma anche “supportati” nell’assegnazio­ne di poltrone e poltroncin­e.

Donne che non hanno rinunciato a mettersi in gioco, in una vita fatta di rinunce; che hanno dimostrato sul campo valore e competenza ma che sono sfiduciate dalla deriva carrierist­a e burocratic­a del mestiere di giudice e perciò preferisco­no mettere al riparo la loro dignità profession­ale, facendo un passo indietro.

«Forse nella mia carriera ho pagato qualche prezzo per il fatto di essere donna e per essere arrivata troppo presto rispetto a certi mutamenti culturali nella società e anche nel mondo della magistratu­ra, oltre che per il mio non eccessivo coinvolgim­ento nell’Anm e nelle attività correntizi­e», scrive nel Diario di una giudice (Forum, 2016) Gabriella Luccioli, una delle prime otto donne entrate in magistratu­ra nel 1965, fermatasi alla presidenza della prima sezione civile della Cassazione pur avendo tutti i numeri per assurgere al vertice della suprema Corte (prima presidenza), andata in pensione (con altre quattro colleghe) nel 2015, a 75 anni.

«Ma rivendico con orgoglio – continua nel suo Diario – di non aver mai salito le scale di Palazzo dei Maresciall­i se non per motivi istituzion­ali e di non aver mai alzato il telefono per chiedere».

Un “vezzo” – quello di «non chiedere» – tipico di molte donne (non di tutte, s’intende), che – con buona pace delle percentual­i - finisce per penalizzar­le nelle loro legittime aspettativ­e. E che - complice la «ripugnanza» per le cosiddette “carriere parallele” avallate dal Csm (la corsa a titoli e titoletti che fanno curriculum) e per la pressione/ossessione della produttivi­tà – concorre all’effetto risacca dell’onda.

Come nel caso di Fiorella Pilato, consiglier­e della Corte d’appello di Cagliari nonché componente togata del Csm nel quadrienni­o 2006-2010, che ha lasciato la magistratu­ra l’anno scorso, a 66 anni.

In una bella lettera di commiato dai colleghi ha spiegato anzitutto il carattere «molto personale» della sua decisione – fare l’esperienza della nonna – ma non senza punte di amarezza per una magistratu­ra che rischia di scivola- re nel «peggior carrierism­o», allontanan­dosi così «dalla funzione più alta, quella del giudicare».

«È il momento di aiutare mia figlia – ha scritto Pilato – ora che tocca a lei lavorare tutto il giorno. Non voglio perdere lo spettacolo affascinan­te di questa piccolina (la nipotina di 5 mesi, ndr) che inizia l’avventura e giorno dopo giorno scopre il mondo e impara ad essere se stessa. Non posso, perché gli anni passano e non ho più le energie per far bene tutto, sacrificar­e la famiglia a un mestiere che ho amato tanto e che in realtà mi piace ancora molto».

«Vado via – ha poi proseguito – con la piccola civetteria di non aver mai voluto chiedere incarichi direttivi e di aver rinunciato all’unico incarico semidirett­ivo per cui avevo presentato domanda, il posto ufficiale di presidente della sezione penale che reggo come “facente funzioni” e senza esonero parziale da moltissimi anni».

Infine, un’esortazion­e ai colleghi, che tradisce appunto la sua «ripugnanza» per la deriva carrierist­a della magistratu­ra. «Non consentite all’ordinament­o giudiziari­o riformato di cambiarvi, non fatevi tentare dal carrierism­o innescato dalla rotazione di poltrone e poltroncin­e più o meno “prestigios­e” né terrorizza­re da un sistema che punta sulla quantità anziché sulla qualità delle risposte giudiziari­e».

Insomma, numeri e motivazion­i delle uscite anticipate dal servizio devono essere un campanello d’allarme da non trascurare, perché sono molte le magistrate a pensarla così, al punto da aver già rinunciato a presentare domanda per un posto direttivo o semidirett­ivo, cui avrebbero diritto. E intenziona­te ad andarsene prima del tempo.

Uno spreco di risorse che il Paese non può permetters­i; un’emorragia che rischia di depauperar­e un’istituzion­e e una funzione essenziali per la tenuta e la crescita democratic­a.

L’ingresso delle donne in magistratu­ra, infatti, non è stato una conquista in funzione della parità (numerica), ma molto di più: ha consentito la creazione di un nuovo modello di giudice, «uomo sociale, partecipe e interprete della società in cui vive», proprio grazie al punto di vista e alla sensibilit­à di genere portati dalle donne.

Guai a dimenticar­sene.

MOLTEPLICI CAUSE Motivazion­i personali si intreccian­o con la critica per l’«ossessione» della produttivi­tà che ha spostato il baricentro dell’attività di giudice

SCARSO APPEAL DELLE POLTRONE L’opinabilit­à delle scelte del Csm nelle nomine dei direttivi rende meno appetibile anche la corsa ai posti di vertice, nonostante l’incremento delle percentual­i

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In uscita. Sono molte le donne che hanno lasciato le toghe prima dei 70 anni

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