La sfida è sul modello di fisco Ue
Il caso Apple e la posizione dell’Irlanda ci offrono un’occasione per riflettere sul concetto di concorrenza fiscale internazionale e su come l’organizzazione dei sistemi tributari sia diventata uno dei principali elementi di diversificazione dei sistemi economici nazionali. Ormai da tempo tutti i Paesi occidentali stanno moltiplicando gli sforzi per aumentare la competitività riducendo il peso fiscale sui fattori mobili di produzione (capitali e innovazione tecnologica) e sulla tassazione delle imprese.
Nella Ue si è aperta una competizione fiscale che ha spesso anteposto gli interessi particolari dei singoli Stati al governo comunitario della materia e ha provocato danni per la maggior parte dei Paesi membri. A questi fenomeni si associano perdite rilevanti di gettito sui redditi prodotti dai fattori più mobili, che devono essere poi compensate con un aumento della pressione a carico di quelli meno mobili (lavoro e patrimoni immobiliari).
Il caso dell’Irlanda, Paese che da tempo ha scelto di impegnarsi nel garantire un livello di tassazione sulle imprese fra i più bassi d’Europa, è significativo. Non vi sono dubbi, infatti, che faccia parte della concorrenza fiscale “sana” gettare i presupposti per attrarre investimenti dall’estero con basse aliquote, pochi adempimenti burocratici, snellezza delle procedure contabili e chiarezza della normativa tributaria. Accanto a queste misure che l’Irlanda ha saputo introdurre, va però considerata, in un’altra ottica, la politica degli accordi riservati ad al- cune multinazionali, come la Apple, attraverso gli strumenti degli advance tax ruling e degli advance price agreement. Questi accordi, che tendono a restringere in misura abnorme la base imponibile delle multinazionali operanti in Irlanda e consentono una tassazione effettiva, che per alcuni anni è stata addirittura dello 0,005% sui profitti, sono esempi inequivocabili di una concorrenza fiscale internazionale “dannosa” che va combattuta e sanzionata.
È quindi importante comprendere quale sarà il destino del contenzioso fra Dublino e Apple, da un lato, e la Commissione europea dall’altro. In gioco non ci sono i 13 miliardi di euro di sanzione, ma la credibilità residua del disegno europeo. Di fronte alla realtà di questi numeri la difesa dell’Irlanda appare davvero inconsi- stente e sembra francamente arduo sostenere di aver mal interpretato compiti e funzioni delle divisioni irlandesi di Apple, sovrastimando le attività che potevano essere tassate nel Paese.
La lezione che questa vicenda dovrebbe impartire ai vari Stati membri, alle multinazionali e al sistema economico e finanziario internazionale è quella di dimostrare, proprio in un momento di scarso impegno europeistico dei governi e di deciso affievolimento di slancio nell’opinione pubblica, che i principi del Trattato di Roma sono ancora validi sessant’anni dopo la sua stipula. Non si tratta solo di rimuovere i regimi particolaristici “dannosi”, la vera sfida è quella di trovare finalmente un modello uniforme di struttura fiscale, a partire dalla base imponibile comune per l’imposta sulle società, eliminando finalmente quel “bricolage” discrezionale che i singoli Paesi hanno sinora messo in atto.