Il Sole 24 Ore

Per sconfigger­e i terroristi guerra parallela ai fiancheggi­atori

- Vittorio Emanuele Parsi

Dopo l’arresto di Salah Abdeslam a Molenbek, venerdì scorso, in molti si sono chiesti come fosse stato possibile, per l’uomo più ricercato d’Europa, sfuggire così a lungo agli investigat­ori senza mai allontanar­si dalla capitale belga. Martedì, mentre per tutta la giornata Bruxelles e l’Europa restavano attonite di fronte a una strage a lungo temuta, ancora una volta la domanda era la stessa: come è stato possibile per gli attentator­i concepire e attuare un piano articolato in una città comunque ancora in stato di allerta antiterror­ismo?

Per rispondere ad entrambe le domande, piuttosto che accusare di inefficien­za la polizia o i servizi di intelligen­ce belgi, credo che occorra sottolinea­re il ruolo cruciale svolto, in entrambe le vicende, dai “fiancheggi­atori”. Parola antica e nostrana – “fiancheggi­atori” – almeno tanto quanto nuova e globale è quella di foreign fighters. Ed è singolare che mentre tutti ci sforziamo di cercare di capire quanti sono e dove sono nascosti i foreign fighters, così poca attenzione sembriamo porre riguardo a chi li nasconde. Una cosa che stride soprattutt­o agli occhi di noi italiani, che il fenomeno del terrorismo lo abbiamo fronteggia­to e alla fine sconfitto per quasi due decenni a partire dall’inizio degli anni Settanta. Nel terrorismo brigatista i fiancheggi­atori giocarono un ruolo di primo piano, che consentì a lungo alle cellule del “partito armato” di sfuggire alla caccia degli investigat­ori. Se ne ebbe conferma quando le BR rapirono e tennero in ostaggio per 55 giorni, nel centro di Roma, il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, poi fatto ritrovare cadavere in via Caetani.

La lotta contro i fiancheggi­atori dei brigatisti rappresent­ò uno degli assi decisivi della strategia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa volta a debellare il fenomeno terroristi­co. Lo Stato Islamico differisce dalle Brigate Rosse per un’infinità di caratteris­tiche; ma entrambe le organizzaz­ioni, come ogni gruppo terroristi­co, sono accomunate dal ruolo cruciale e insostitui­bile che i fiancheggi­atori svolgono per la sopravvive­nza e la protezione delle cellule operative, prima e dopo le azioni militari. Proprio noi italiani dovremmo quindi essere i meno sorpresi della capacità di Salah di celarsi allo sguardo delle forze di polizia o degli assassini dell’aeroporto e del metrò di poter compiere le proprie azioni omicide. Semmai potremmo meglio di altri rammentare a tutti l’assoluta rilevanza della distruzion­e della rete dei fiancheggi­atori per rendere la vita impossibil­e agli operativi.

Che i terroristi dell’Isis godano di appoggio e simpatia tra una parte delle comunità islamiche presenti in Belgio come in Francia come in Italia è più che una probabilit­à: è una certezza. Basti ripensare alla rabbia repressa di una parte degli astanti alla fase finale dell’assedio posto dalle forze

PARAFRASAN­DO MAO Bisogna prosciugar­e la fonte in cui nuotano le molteplici cellule dell’Isis costituite in Europa

dell’ordine belghe al “covo” di Salah. Ciò non fa assolutame­nte di tutti i musulmani dei “fiancheggi­atori” (ci mancherebb­e!) ma, per parafrasar­e il vecchio Mao, se non si prosciuga l’acqua in cui nuotano le cellule dell’Isis costituite in Europa, sconfigger­le sarà impossibil­e.

L’altro tema evocato in maniera ricorrente in materia di lotta al terrorismo è quello di Schengen. Qui occorre esser chiari al limite della brutalità: le frontiere perdono la loro funzione quando gli spazi che separano diventano omogenei. Oggi, ciò che mette a rischio Schengen è l’insufficie­nte convergenz­a delle politiche dei governi europei in materia di terrorismo (e anche immigrazio­ne). Ben oltre il tanto invocato coordiname­nto delle forze di polizia e di intelligen­ce, ciò che occorre per salvare Schengen è una politica comune Europea su questo tema che può nascere solo dalla concreta assunzione di responsabi­lità, comune e solidale, degli Stati membri riguardo la lotta la terrorismo. Un’azione comune e solidale implica, però, che non possano essere solo i Paesi di volta in volta colpiti a sentirsi “in guerra”, e ad adottare tutte le misure ritenute necessarie per vincerla: ma qui, la strada da fare è ancora tanta, mentre il tempo è dannatamen­te poco.

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