Aziende confiscate, il codice antimafia finisce fuori strada
Qual è il giusto utilizzo dei beni mafiosi confiscati, un patrimonio da decine di miliardi alimentato senza sosta da misure di prevenzione e inchieste giudiziarie? Anche di questi aspetti si occupa, con importanti novità, il Ddl 2134/S che modifica il codice antimafia, licenziato in prima lettura alla Camera (si veda “Il Sole 24 Ore” del 14 dicembre).
Tra le previsioni della normativa in itinere, la nuova composizione del cda dell’Agenzia per i beni sequestrati e il nuovo profilo del suo direttore, oggi un prefetto ma che potrà essere scelto tra i magistrati anziani e i dirigenti del demanio che vantino «un’esperienza professionale specifica». Soprattutto, il nuovo codice disciplina le azioni necessarie per stabilire se un’azienda sequestrata (e che entrerà nell’orbita dell’Agenzia solo con la confisca di secondo grado) possieda i requisiti per sopravvivere. È una fase delicata, in cui si deve valutare se valga la pena di scommettere sul futuro della produzione, del business, dei posti di lavoro. Se tali requisiti verranno riconosciuti, l’amministratore giudiziario dovrà presentare un business plan dettagliato, sul quale si pronuncerà il giudice, ma – altra novità – nel contraddittorio tra le parti. Dunque il rito si apre alle ragioni dei soggetti colpiti, anche per decidere se l’azienda abbia le caratteristiche per restare sul mercato. Un nodo davvero cruciale.
Non dev’essere un caso che proprio su questo nodo, il nuovo codice antimafia ingarbuglia anziché snellire, complica invece di semplificare. Il testo, infatti, moltiplica i passaggi delle pratiche su “tavoli” istituiti in ogni prefettura, attorno ai quali dovranno confrontarsi sindacati, imprenditori, cooperative, associazioni, in un encomiabile sforzo di coinvolgimento della società civile che finirà, invece, per pesare ulteriormente sul lavoro già gravoso delle propaggini periferiche dello Stato. Eppure l’esperienza delle white list è recente: nel giro di poche settimane, prefetture e coordinamenti provinciali interforze sono diventati altrettanti colli di bottiglia nella selezione delle imprese, per carenze di personale, risorse, tecnologia.
Perplessità sorgono anche sugli articoli del Ddl che prevedono di affiancare agli amministratori giudiziari, enti non profit o anche singoli imprenditori: tutti soggetti che potrebbero nei fatti godere di un affidamento gratuito dei beni sequestrati e di una sorta di prelazione quando, a confisca definitiva, l’azienda sarà affittata o ceduta. Meccanismi rugginosi già alla nascita, per quanto scritti in buona fede e all’insegna di una lodevole sinergia tra Stato e società civile, ma che finiscono per poggiare solo sulla sensibilità di quanti si offriranno di cooperare (si spera non di approfittare o di sbarcare il lunario), ovviamente in nome della legalità.
Su tutti questi aspetti, la riforma sembra avvertire il peso delle aspettative di quel composito segmento del fronte antimafia che presidia ogni passaggio dell’iter della confisca, per mantenere costante l’afflusso dei beni da gestire, con le risorse (pubbliche e non) che tale attività accompagna.
Alla base di questa serrata azione di lobbying, l’idea secondo cui ogni casa, azienda, terreno tolti ai boss trasmutano in trofeo intangibile da ostendere nei riti antimafia della società civile. Ma se il valore simbolico è innegabile, si tratta allo stesso tempo di cespiti da valorizzare – se ce ne sono le condizioni – oppure di cui liberarsi quando economicamente insostenibili. E molto spesso, dice l’esperienza, le aziende non sono vere realtà imprenditoriali in grado di reggersi dopo il sequestro, proprio perché, una volta sottratte al contesto criminale, perdono quei “vantaggi competitivi” che sono in realtà distorsioni del mercato.
Teorizzarne il salvataggio indiscriminato solo perché tolte ai boss, è una filosofia due volte insana: innanzitutto, perché lo Stato dovrebbe impiegare denaro dei contribuenti per mantenerle in vita e, in secondo luogo, perché così verrebbero nuovamente beffate (dalla retorica antimafia) le imprese sane, fin lì sopravvissute alla concorrenza sleale dei mafiosi.