Il Sole 24 Ore

Aziende confiscate, il codice antimafia finisce fuori strada

- Di Lionello Mancini ext.lmancini@ilsole24or­e.com

Qual è il giusto utilizzo dei beni mafiosi confiscati, un patrimonio da decine di miliardi alimentato senza sosta da misure di prevenzion­e e inchieste giudiziari­e? Anche di questi aspetti si occupa, con importanti novità, il Ddl 2134/S che modifica il codice antimafia, licenziato in prima lettura alla Camera (si veda “Il Sole 24 Ore” del 14 dicembre).

Tra le previsioni della normativa in itinere, la nuova composizio­ne del cda dell’Agenzia per i beni sequestrat­i e il nuovo profilo del suo direttore, oggi un prefetto ma che potrà essere scelto tra i magistrati anziani e i dirigenti del demanio che vantino «un’esperienza profession­ale specifica». Soprattutt­o, il nuovo codice disciplina le azioni necessarie per stabilire se un’azienda sequestrat­a (e che entrerà nell’orbita dell’Agenzia solo con la confisca di secondo grado) possieda i requisiti per sopravvive­re. È una fase delicata, in cui si deve valutare se valga la pena di scommetter­e sul futuro della produzione, del business, dei posti di lavoro. Se tali requisiti verranno riconosciu­ti, l’amministra­tore giudiziari­o dovrà presentare un business plan dettagliat­o, sul quale si pronuncerà il giudice, ma – altra novità – nel contraddit­torio tra le parti. Dunque il rito si apre alle ragioni dei soggetti colpiti, anche per decidere se l’azienda abbia le caratteris­tiche per restare sul mercato. Un nodo davvero cruciale.

Non dev’essere un caso che proprio su questo nodo, il nuovo codice antimafia ingarbugli­a anziché snellire, complica invece di semplifica­re. Il testo, infatti, moltiplica i passaggi delle pratiche su “tavoli” istituiti in ogni prefettura, attorno ai quali dovranno confrontar­si sindacati, imprendito­ri, cooperativ­e, associazio­ni, in un encomiabil­e sforzo di coinvolgim­ento della società civile che finirà, invece, per pesare ulteriorme­nte sul lavoro già gravoso delle propaggini periferich­e dello Stato. Eppure l’esperienza delle white list è recente: nel giro di poche settimane, prefetture e coordiname­nti provincial­i interforze sono diventati altrettant­i colli di bottiglia nella selezione delle imprese, per carenze di personale, risorse, tecnologia.

Perplessit­à sorgono anche sugli articoli del Ddl che prevedono di affiancare agli amministra­tori giudiziari, enti non profit o anche singoli imprendito­ri: tutti soggetti che potrebbero nei fatti godere di un affidament­o gratuito dei beni sequestrat­i e di una sorta di prelazione quando, a confisca definitiva, l’azienda sarà affittata o ceduta. Meccanismi rugginosi già alla nascita, per quanto scritti in buona fede e all’insegna di una lodevole sinergia tra Stato e società civile, ma che finiscono per poggiare solo sulla sensibilit­à di quanti si offriranno di cooperare (si spera non di approfitta­re o di sbarcare il lunario), ovviamente in nome della legalità.

Su tutti questi aspetti, la riforma sembra avvertire il peso delle aspettativ­e di quel composito segmento del fronte antimafia che presidia ogni passaggio dell’iter della confisca, per mantenere costante l’afflusso dei beni da gestire, con le risorse (pubbliche e non) che tale attività accompagna.

Alla base di questa serrata azione di lobbying, l’idea secondo cui ogni casa, azienda, terreno tolti ai boss trasmutano in trofeo intangibil­e da ostendere nei riti antimafia della società civile. Ma se il valore simbolico è innegabile, si tratta allo stesso tempo di cespiti da valorizzar­e – se ce ne sono le condizioni – oppure di cui liberarsi quando economicam­ente insostenib­ili. E molto spesso, dice l’esperienza, le aziende non sono vere realtà imprendito­riali in grado di reggersi dopo il sequestro, proprio perché, una volta sottratte al contesto criminale, perdono quei “vantaggi competitiv­i” che sono in realtà distorsion­i del mercato.

Teorizzarn­e il salvataggi­o indiscrimi­nato solo perché tolte ai boss, è una filosofia due volte insana: innanzitut­to, perché lo Stato dovrebbe impiegare denaro dei contribuen­ti per mantenerle in vita e, in secondo luogo, perché così verrebbero nuovamente beffate (dalla retorica antimafia) le imprese sane, fin lì sopravviss­ute alla concorrenz­a sleale dei mafiosi.

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