L’IRAN E GLI ALBUM DI FAMIGLIA
Si dirà che i pezzi da novanta leggevano il presente senza avere la sfera di cristallo, non potevano sapere gli abissi a cui sarebbe giunta la repubblica islamica. Ma è proprio ciò che oggi inquieta
Netanyahu come Sinwar. La richiesta di arresto che mette sullo stesso piano il premier di Israele e il leader dei terroristi. Un fatto enorme. Il mondo alla rovescia. E tuttavia c’è qualcosa che non torna nello stupore con il quale il “fattaccio” della procura dell’Aja viene analizzato da commentatori e politici. La chiamerei amnesia, forse rimozione. Ovvero il rifiuto di qualsivoglia flashback che ci riporti a quarant’anni orsono. Alle origini di quella istituzione abnorme che è la Repubblica islamica dell’Iran, cioè il motore e sponsor dell’attuale crisi medio-orientale. Certo, oggi Pierluigi Battista si infuria con i giovani delle nostre università che amano Hamas e odiano gli ebrei. E meno male che c’è Battista. Ma attenzione. Ci sono pure le radici dell’odierno paradosso, radici imbarazzanti, mai discusse, mai passate al setaccio come sarebbe necessario. C’è il solito album di famiglia, con quelle foto magari ingiallite, ma con profili e occhi che si riconoscono facilmente.
E allora basta tornare indietro nel tempo, a quel fatidico primo febbraio del 1979, quando Ruhollah Khomeini scese lentamente dalla scaletta del Boeing 747 che l’aveva riportato a Teheran dall’esilio di Parigi. Quell’immagine, “la lunga veste nera dei capi religiosi, la barba bianca e il capo avvolto nel turbante”, ha scritto Raffaele Romanelli, era “la negazione vivente di una lunga vicenda di occidentalizzazione”. La fine del tentativo kemalista o nasseriano di laicizzare quella parte di mondo. Khomeini non avrebbe modernizzato l’islamismo, avrebbe islamizzato la modernità. La sua rivoluzione avrebbe consolidato in modo decisivo uno schieramento antiatlantico e antiamericano che già nella crisi petrolifera di qualche anno prima aveva assunto capacità di iniziativa inaudite.
Ele intenzioni dell'imam furono chiare, chiarissime fin dai suoi primi atti politici. Khomeini non aveva mai nascosto le proprie idee, detestava la laicità, prescriveva le regole minute della vita quotidiana, del bere, del mangiare, riteneva i non musulmani impuri come “l'urina, gli escrementi, lo sperma, le ossa, il sangue, il cane, il porco, il vino”. E naturalmente vedeva negli ebrei i nemici più temibili. E, quando prese il potere, impose il velo alle donne e iniziò a decapitare gli oppositori. Era una minaccia per la civiltà occidentale. Lo capì, guarda caso, Angelo Pezzana, il dimenticato leader del Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, che nell'estate del 1979 mise una taglia di un milione di dollari sulla testa di Khomeini, promettendogli, quando fosse stato catturato, un pubblico processo per i crimini che stava commettendo nel suo paese contro “omosessuali, donne, laici, minoranze etniche e religiose”. Una provocazione all'umor nero. Ma quanti capirono, oltre a Pezzana?
È questo l'album di famiglia che andrebbe riaperto. E non per il gusto del vintage, quanto per rendersi conto che le debolezze culturali, delle quali oggi l'Occidente mostra segni così sfacciati, hanno fior di padri e di madri, hanno origini che non si sono mai realmente interrotte. Perché
questo non andrebbe mai dimenticato: di fronte all'imam che incendiava la Persia, l'Occidente esultò. E tra i laudatori si fecero notare leader comunisti come, per esempio, Pietro Ingrao. Sono state citate più volte le sue parole: “Guai se ci lasciamo abbagliare dai nostri pregiudizi e non ci accorgiamo che nella forma peculiare di quella esperienza si stanno lì affrontando questioni a noi non estranee: quale modello di sviluppo, se e come deve esplicarsi una funzione dei partiti, quale ruolo devono avere movimenti di massa e forme di democrazia diretta”. Modello di sviluppo, partiti, movimenti, democrazia. Ingrao non si lasciava sfuggire l'occasione per una riflessione sistemica. Teorizzava. Metteva il dito nella piaga di una crisi dell'Occidente che aveva chiuso gli “anni d'oro” del secondo Dopoguerra e che, nella temperie della decolonizzazione, stava preparando quello che sarebbe stato il confronto epocale tra “the West and the Rest”. Ma naturalmente, facendo la sua scelta, Ingrao sceglieva la parte sbagliata. E tuttavia, diciamolo, sarebbe troppo facile prendersela soltanto con i comunisti italiani, con Ingrao, con Rossana Rossanda, con il direttore di “Rinascita” Romano Ledda, che a Khomeini aveva dedicato un titolo definitivo: “Rivoluzione contro il Capitale”.
Il fatto è che, a perdere la testa di fronte al vecchio imam, furono molti se non tutti i chierici della gauche europea, gli orientalisti più accorsati, i pensosi salotti liberal. Michel Foucault non esitò a definire quella khomeinista come “la prima grande insurrezione contro sistemi globali”. E nell'Iran credette di vedere “una grande tenzone tra due personaggi dal blasone tradizionale: il re e il santo; il sovrano in armi e l'esule inerme; il despota con, di fronte, l'uomo che si erge con le mani nude, acclamato da un popolo”. Quanto a Jean-Paul Sartre, si recò di persona a Teheran pur di dare il suo appoggio pubblico all'imam. E lo osannarono, del resto, Gabriel García Márquez e Günter Grass. Lo osannò perfino l'omosessuale Jean Genet, senza rendersi conto. E la femminista Simone de Beauvoir, anche lei senza rendersi conto. Sembrava una sorta di abbaglio collettivo. Fu entusiasta, da noi, Francesco Alberoni che - sulle colonne del “Corriere della Sera” - scrisse: “La liberazione cessa di essere un prodotto della dominazione culturale dell'Occidente e diventa una autoliberazione nel nome del Corano”. Certo è che furono pochi ad accorgersi di quanto stava accadendo. Come l'orientalista Maxime Rodinson, il quale, già nel gennaio del 1979, poteva scrivere che “Khomeini non è Robespierre o Lenin, forse nemmeno Savonarola, Calvino o Cromwell, ma può tendere a Torquemada”. O come Oriana Fallaci, che all'imam, quand'era ancora a Parigi, fece una famosa intervista che si interruppe quando lei si tolse il chador che aveva dovuto indossare. Khomeini si alzò e scomparve.
Si dirà che, dopotutto, tali e tanti pezzi da novanta leggevano il presente e soltanto il presente. Non avevano la sfera di cristallo. Non potevano sapere gli abissi a cui sarebbe giunta la repubblica islamica. Ma è proprio ciò che oggi inquieta. Siamo sicuri che gli attuali osservatori, gli esperti, gli studiosi, coloro che analizzano il presente, che si indignano di fronte alle vittime di Gaza, che suggeriscono di rispondere all'espansionismo iraniano con le armi della realpolitik o magari con l'irenismo di Francesco, non siano anche loro pericolosamente miopi come furono i saggi di quarant'anni fa?
Non andrebbe mai dimenticato che di fronte all'imam che incendiava la Persia, l'Occidente esultò. E tra i laudatori si fecero notare García Márquez e Günter Grass