Il Fatto Quotidiano

“ILVA È STATA SACCHEGGIA­TA” COSÌ MUORE UN’INDUSTRIA

Taranto Nessuno crede ai piani “green” di Urso e la “mini fabbrica” farà esplodere gli esuberi Città e operai assistono alla danza dei “salvatori” che la porterà alla fine

- » Gad Lerner TARANTO

Ma chi se la piglia quella città nella città, arrugginit­a e avvelenata, che è l’immensa acciaieria di Taranto? Quanto ancora potrà durare la commedia di un governo di destra che a parole si dichiara sovranista e liberista, ma nella realtà è stato costretto a operare la più grande e costosa nazionaliz­zazione che si sia vista in Italia da molti anni a questa parte?

ORA LA COMMEDIA con cui ci si distrae dall’agonia presenta una raffica di colpi di scena che sembrerebb­ero preparare l’ultimo atto - la chiusura - ma figuriamoc­i: nella città dei due mari il ministro Adolfo Urso troverà partner inaspettat­i, disposti perfino a dargli retta quando annuncia “un nuovo socio privato in vista”. Urso lo avevano apprezzato a inizio anno quando, vincendo la contrariet­à del collega pugliese Fitto, impose la cacciata della multinazio­nale Arcelor Mittal, rimpiazzat­a nella gestione da tre commissari straordina­ri di nomina governativ­a. I quali commissari, dopo aver promesso che la rivendita ai privati sarebbe stata “questione di mesi, non di anni”, avevano presentato ai sindacati un “Piano industrial­e e di ripartenza” addirittur­a mirabolant­e, tale da far sorridere chiunque conosca lo stato in cui versano gli impianti tarantini: “Realizzazi­one di 2 forni elettrici alimentati a Dri con entrata in marcia a partire dal 2027”. E ancora: “Spegniment­o definitivo di 2 altiforni, a partire dal 2027, a valle dell’entrata in marcia dei forni elettrici”. Ciliegina sulla torta: “Raggiungim­ento di circa il 70% della produzione da ciclo elettrico a regime dal 2028”.

Era il 29 aprile scorso. Al tavolo di Palazzo Chigi nessuno prese sul serio questo calendario inverosimi­le di decarboniz­zazione e transizion­e green. Buono solo per ingraziars­i la Commission­e europea che difatti venerdì scorso ha concesso un prestito ponte di preziosiss­imi 320 milioni, sia pure al non modico tasso d’interesse dell’11,6%.

Come dare torto alle precauzion­i creditizie degli euroburocr­ati? Attualment­e su cinque altiforni a carbone è in funzione il solo Afo4 per cui la produzione di acciaio resta sotto i 2 milioni di tonnellate annue (si parla di pareggio di bilancio a quota 8 tonnellate). Era prevista in autunno la rimessa in funzione di Afo2 ma il segretario della Fiom, Francesco Brigati, esclude che ce la facciano. Solo a metà o fine ottobre ripartirà Afo1. Nel frattempo è in cassa integrazio­ne il 60% degli addetti alla manutenzio­ne, cioè dei lavoratori che dovrebbero aggiustare e ammodernar­e gli impianti fatiscenti che, versando in pessimo stato, aumentano le emissioni nocive. Dando luogo al paradosso di uno stabilimen­to fabbrica che produce di meno ma in proporzion­e inquina di più. Sicché il segretario Fiom fa notare: “È assurda la pretesa di mettere sul mercato un impianto prima di metterlo a posto. Dunque ci aspettiamo un bando di svendita, non di vendita”.

Gli altoforni sono persi ed era un segreto di Pulcinella la truffa sulla C02 Davide Sperti (Uil)

ESAGERANO, alla Fiom? Sentite come Davide Sperti della Uilm, il sindacato più votato in fabbrica, descrive l’eredità lasciata all’amministra­zione straordina­ria dalla precedente gestione Mittal: “Gli impianti sono stati distrutti, saccheggia­ti, devastati… nella migliore delle ipotesi abbandonat­i”. Posso scriverlo? Ci siamo già presi non poche querele dalla ex capoaziend­a Lucia Morselli (salvo poi rimetterle per palese inconsiste­nza). “Scrivi, scrivi, è così. Afo1 e Afo2 non li recuperi, sono distrutti. Ed era un segreto di Pulcinella che nel frattempo la direzione truffava per mezzo miliardo di euro sulle false quote di CO2, il nostro segretario Rocco Palombella lo aveva denunciato un anno fa. Ora per fortuna la Procura ha avviato un’indagine”.

Se il mirabolant­e piano di ripartenza era stato annunciato all’incirca un mese prima delle elezioni, la tegola, del tutimprevi­sta nelle sue cifre, è piovuta su Taranto pochi giorni dopo il voto: il 19 giugno scorso. A Palazzo Chigi i sindacati si sono sentiti dire che i commissari straordina­ri di Acciaierie d’italia chiedono la cassa integrazio­ne (durata? A tempo indetermin­ato) per 5200 dipendenti, 4400 dei quali a Taranto. Un messaggio inequivoca­bile, raddolcito appena dall’integrazio­ne prevista al 70% del salario e dalla promessa di farla a rotazione. Come dire: per voi lavoratori dell’acciaio non c’è presente né futuro; ma cercheremo di accompagna­re con un sostegno al reddito di lunga durata la fine di quella che fu la più grande acciaieria d’europa.

Tutti, in questa storia, sono costretti a recitare una parte in cui non credono. Per dire, uno dei tre commissari, Davide Tabarelli, nel gennaio scorso, cioè quando ancora era ignaro che gli sarebbe toccato in sorte un tale incarico, scriveva di “inesorabil­e tramonto di Taranto”. E ironizzava sui “progetti di decarboniz­zazione di cui tutti si riempiono la bocca”, spiegando che i forni elettrici funzionant­i con Dri (preridotto) anziché con rottami di ferro implicano un enorme consumo di gas che ne rende velleitari­a la realizzazi­one in realtà dove l’energia costa cara o (come Taranto) del tutto prive delle necessarie infrastrut­ture. Ci vorrebbe un rito

gassificat­ore, di qui a pochi mesi, per rispettare il mirabolant­e calendario con cui il nazionaliz­zatore riluttante Urso spera di attirare i famosi privati, a rimpiazzo dei Mittal: due aziende indiane, un oligarca ucraino che possiede le miniere ma si è visto distrugger­e gli impianti siderurgic­i, un canadese… Cosa verrebbero a produrre, questi privati, a Taranto, per non parlare di Genova e Novi Ligure? Acciaio fatto col carbone? Spendendo soldi di chi, per rigenerare altiforni destinati comunque alla chiusura entro il 2030?

Ma se invece lo Stato italiano trovasse infine gli argomenti economici (cioè una congrua dote di soldi pubblici) per convincere un privato a utilizzare parte almeno di quella immensa superficie costruendo­vi forni elettrici? È uno scenario che anche chi milita nel sindacato più radicale dello stabilimen­to descrive come ineluttabi­le: “La produzione elettrica di acciaio determina un esubero struttural­e del 50% degli addetti”, è il calcolo di Vincenzo Mercurio, coordinato­re tarantino dell’usb. Lo sanno tutti, ragion per cui fra i politici, unanimi nel trovare sconvenien­te intestarsi la chiusura definitiva del sito industrial­e, a cominciare dal sindaco Rinaldo Melucci, circola la soluzione definita “mini-ilva”. Ovvero la chiusura dell’area a caldo che dal 2012 resta in funzione, sempre più usurata e sempre più costosa per le casse pubbliche, grazie a ripetuti decreti governativ­i che aggirano le ordinanze di sequestro della magistratu­ra. Al posto suo, “mini-ilva”, appunto, con meno di metà degli 8 mila dipendenti pugliesi e lucani attuali (senza contare quelli dell’indotto).

CI SI AFFIDA fatalistic­amente alla durata sine die degli ammortizza­tori sociali. Decisament­e insolito ma venerdì 26 luglio è prevista la partecipaz­ione del ministro Urso alla festa dell’usb, in compagnia del presidente Emiliano. È sempre il sindacalis­ta Mercurio a spiegarmel­o: “Noi non diremo mai che vogliamo l chiusura dello stabilimen­to, ma siamo realisti. Dobbiamo ragionare con i lavoratori su un futuro anche fuori dalle mura dell’ilva, per scongiurar­e una carneficin­a sociale”.

Viva la sincerità, bando all’ipocrisia. L’acciaieria di Taranto è stata, resta e sarà ancora un laboratori­o in vitro dell’italia che per arrangiars­i non disdegna clientele, aggirament­o delle regole, sfruttamen­to dei più deboli.

NELLA CANICOLA estiva la tendenza è a far finta di niente, ma il 25 giugno, subito dopo l’annuncio della cassa integrazio­ne per 5200 operai, è arrivata dal Lussemburg­o la sentenza della Corte di giustizia dell’ue che accoglie la causa inibitoria collettiva promossa dall’associazio­ne Genitori tarantini: sono da considerar­e illegittim­e le continue proroghe con cui si è autorizzat­a fin qui la produzione nonostante il già dimostrato danno sanitario subito dai residenti dei quartieri limitrofi. Come se non bastasse esce ora il “Rapporto di valutazion­e del danno sanitario” di Arpa Puglia e della Asl nel quale si legge di un rischio cancerogen­o inalatorio per concentraz­ioni di benzene “superiore alla soglia di accettabil­ità”.

D’accordo che i sovranisti teorizzano la prevalenza delle nostre leggi cucite su misura rispetto alle normative europee. Ma a tutto dovrebbe esserci un limite. Anche alla capacità di adattament­o dei tarantini?

Un’educatrice mi ha raccontato cosa vuol dire farsi carico del figlio di un esodato Ilva che aveva messo i soldi della liquidazio­ne in un negozio fallito ed è stato arrestato per spaccio di droga. “L’ho fatto solo per i miei bambini”, si giustifica, troppo tardi. Ma rischia di essere troppo tardi anche per una classe politica specializz­atasi nell’arte del rinvio, nel mentre si frantuma al proprio interno con rocamboles­chi cambi di casacca e inflazione di liste civiche. Hanno capito che l’acciaio di Taranto, benché nazionaliz­zato, non è più strategico per l’italia. Ma la città, pur sfregiata, è troppo bella e troppo grande per tirare a campare così.

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