Pogacar, il mini-cannibale nel Giro degli sbadigli
Il ciclista sloveno chiude con un vantaggio-monstre di 10 minuti: strapotere quasi noioso. Ora tutti al Tour de France, sperando in un po’ di battaglia
Raramente si è visto un Giro più conformista, e noioso, dell’edizione 107 che si è appena conclusa a Roma, con Tadej Pogacar padrone incontrastato, moderna emulazione dell’insaziabile Eddy Merckx. La sostanziale differenza è che ai tempi del Cannibale originale gli organizzatori allestivano corse più avvincenti: tutti contro il più forte, poiché c’erano corridori che avevano l’ambizione, le gambe e la tenacia per battere Eddy, e qualcuno sfiorò persino l’impresa. Accadde nel 1974 allo sfortunato Gibì Baronchelli, perse il Giro per soli 12 secondi dopo 4062 chilometri, un secondo ogni 338,5 chilometri, roba che non ci dormi più per il resto della vita. Merckx se la doveva vedere con i Gimondi, i Motta, i Bertoglio, in salita Fuente, Battistini e Massignan facevano il vuoto…
Quest’anno, è stato invece un tutti lasciamolo andare tanto se lo rincorriamo rischiamo di andare fuori giri, chi ce lo fa fare? I rivali di Tadej avevano l’aria dei folgorati dalla visione epifanica di un extraterrestre in sella ad una bici che volava via. Panico. Rassegnazione. Per ritrovare un distacco superiore ai quasi dieci minuti inflitti al secondo in classifica, il colombiano Daniel Felipe Martinez, bisogna risalire al 1965, quando trionfò Vittorio Adorni con 11’26” su Italo Zilioli. Certo, era un’altra Italia, ed un altro ciclismo. Sport di fatica e riscatto, corridori con “facce da cinema, facce popolari”, scriveva Pasolini che amava la bicicletta ed il ciclismo, raccontavano sacrifici e speranze. Il nostro ciclismo non soffriva complessi d’inferiorità come adesso, il 24 giugno del 1965 al Vigorelli di Milano approdavano i Beatles invece del Giro; l’italietta impazziva, oltre che per le gambe dell’aitante Adorni, per quelle infinite delle gemelle Kessler; Bobby Solo aveva vinto a Sanremo con “Se piangi se ridi”, potrebbe essere l’attuale colonna sonora di questo Giro da pensiero unico del pedale.
Un Giro di “senza”. Senza il culto della differenza, cioè dell’antagonismo. Senza avversari all’altezza di Pogacar (anche quasi). Senza tappe mostruose. Un Banalgiro, illuminato d’immenso dalle imprese di Pogacar, ingrigito dal Giro degli altri. Antonio Tiberi, migliore italiano (quinto assoluto), determinato nel difendere la maglia bianca del primo tra i giovani. L’anziano Geraint Thomas, 38 anni, aggrappato al manubrio dei ricordi di un Tour vinto sei anni fa, impotente dinanzi alle radicali prestazioni di Tadej. Martinez? Il primo dei secondi, un diesel, pure lui pietrificato da Pogacar. Emozioni? Quelle domestiche delle scomposte ma trionfanti volate di Jonathan Milan. La crono di Filippo Ganna. Sul ponte di Bassano, la fuga vittoriosa di Andrea Vendrame. Scampoli di gloria, per tappe d’ordinaria amministrazione. Le più epiche, off limits. Proprietà di Tadej, il padrone delle pedaliere: ne ha prese 6, il 28,5 per cento. Ha stracciato il resto dell’intendenza con disarmante (ma non irrisoria) facilità. Ha sdrammatizzato tale supremazia con sorrisi e saluti; ha sfoggiato la strategia della simpatia e della generosità, accattivandosi la popolarità delle folle; al ventenne scalatore Giulio Pellizzari, il più acerbo del plotone ma anche l’unico che ha osato sfidarlo in salita, ha donato la maglia rosa e un paio di occhiali, ad un ragazzino che gliela chiedeva correndogli al fianco ha regalato la borraccia. Non una paraculata. Ma la clip emblematica del Girosenza, da libro Cuore del nuovo ciclismo paradiso di cui Tadej è ormai l’apostolo. Come avesse dovuto farsi perdonare l’insolente superiorità. Pragmatico, ha sfruttato l’assenza di rivalità per allenarsi in vista del Tour che quest’anno parte da Firenze. L’ha già vinto una volta. Vuole l’accoppiata col Giro. L’ultimo a riuscirci fu Pantani. Solo che Marco dovette sudarselo il Giro del 1998 contro il roccioso Pavel Tonkov. . .
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