“È molto difficile, da ebreo, scrivere in lingua tedesca”
“DNuova traduzione (ed edizione) dei versi del sensibile romeno, sopravvissuto alla Shoah
alle ampie volute dei primi versi fino all’approdo a una poesia di massima concisione che sfiora l’ammutolimento, verso un ultimo affanno del dire”. Così Moshe Kahn nell’introduzione illustra Poesie di Paul Celan, da giovedì in libreria per L’orma. Un lavoro di traduzione che si è rinnovato dopo che Kahn aveva approntato la prima edizione italiana di questa selezione di versi uscita per lo Specchio Mondadori nel 1976. Una preziosa occasione per ritornare sull’opera di Celan – già monumentalizzato in un fortunato Meridiano curato da Giuseppe Bevilacqua nel 1998 (più di 10 mila copie vendute a oggi) – che il premio Strega Helena Janeczek (autrice di Monaco di Baviera che ha scelto l’italiano per i suoi romanzi) si portava appresso come sua “patria tascabile” quando approdò giovanissima a Milano, così ricorda nella sua testimonianza che chiude questo volume con testi originali a fronte.
“Voglio dirle quanto sia difficile, da ebreo, scrivere poesie in lingua tedesca” rivela Celan nel 1946 a un critico; “quando le mie poesie verranno pubblicate in Germania la mano che aprirà quel mio libro avrà forse stretto la mano dell’assassino di mia madre”. È questo tragico dissidio interiore che attraversa i testi pubblicati (di cui tre postumi) di Celan, eco di un vissuto autobiografico che non gli ha mai lasciato scampo. Figlio unico di genitori ebrei – padre rumeno, madre di lingua tedesca – nasce nel 1920 a Czernowitz (città asburgica fino al 1918, poi rumena, poi sovietica, oggi ucraina). Paul Antschel (Ancel in rumeno, poi anagrammato a Parigi in Celan) ha una formazione poliglotta fino alla maturità. Nel 1938 per evitare le leggi razziali si iscrive a una facoltà di Medicina in Francia, da dove rientra prima dello scoppio della guerra. Dall’anno seguente studia alla facoltà di Lettere rumena e poi russa di Czernowitz. Nel 1942, durante l’occupazione tedesca, i genitori vengono deportati in un lager ucraino dove il padre muore di tifo e la madre freddata perché inabile al lavoro. Celan riesce a salvarsi e trascorre due anni in un campo di lavoro in Romania. Ecco dunque spiegata la sfida intellettuale profusa in mezzo secolo di vita: “dire” in poesia il male assoluto.
“Nero latte dell’alba lo beviamo la sera/ lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte…” sono i versi che aprono la celebre Fuga di morte. Lirica sull’orrore dell’olocausto con cui Celan sovverte l’assunto di Adorno sull’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. La raccolta da cui è tratta la poesia, Papavero e memoria (1952), oscilla tra l’alternativa di guardare in faccia i fantasmi del passato oppure cedere all’oblio, di cui il papavero, il fiore dell’oppio, è il simbolo poetico. Occorre che le ombre del passato vengano accolte. Al poeta spetta questa mediazione che in Con alterna chiave da Di soglia in soglia (1955) paragona all’atto di far filtrare luce in una casa abbandonata: “Con alterna chiave/ apri la casa in cui/ la neve del taciuto fluttua”.
Alla fine della guerra comincia un periodo di peregrinazioni. A Bucarest traduce in rumeno classici russi e tedeschi e pubblica le prime poesie. Per un breve periodo vive a Vienna dove incontra Ingeborg Bachmann. Il loro è un profondo legame affettivo, testimoniato dalla loro corrispondenza in Troviamo le parole. Lettere 1948-1973 (Nottetempo, 2010). Alla fine dell’estate 1948 è a Parigi dove si stabilisce fino alla morte: scrive, insegna, traduce. Il francese è la lingua della vita quotidiana, il tedesco quello della sua scrittura. Nel 1952 sposa l’artista grafica Gisèle de Lestrange da cui avrà il figlio Eric. A propiziare una lunga serie di crisi depressive anche una campagna di diffamazione ordita dalla vedova di Yvan Goll, che lo accusa di avere plagiato le poesie del marito. Dal 1962 si succedono diversi ricoveri in cliniche psichiatriche. In un accesso d’ira tenta di accoltellare la moglie. Nel 1967 si allontana dalla famiglia anche per preservarli dalla sua sofferenza. Nel 1970 si toglie la vita gettandosi nella Senna. L’amico e compatriota Emil Cioran scrive: “È andato fino in fondo, ha esaurito le sue possibilità di resistere alla distruzione… si è pienamente realizzato”.