Memorie di una bidella follemente innamorata
Lei lo sa che la vita è cambiamento, che è “una cosa strana che si deve trasformare di continuo per non seccarsi”, eppure è sempre rimasta “radice piantata in una devozione che forse è amore e forse è solo paura”. Ricorda perfettamente la prima volta che lo ha visto, anche se son passati quarant’anni. Neoassunta come bidella in una scuola di Torre Maura, a Roma – non poteva dirsene scontenta, avendo in tasca solo la terza media – resta fulminata dalla visione di Matteo, giovane insegnante di lettere che le entra sottopelle nell’istante in cui varca la soglia di quell’edificio. Gli uomini le hanno sempre trasmesso “un’inquietudine fastidiosa”, lui, coi suoi ricci ribelli e un “inspiegabile” sorriso stampato in faccia, no. Le persone, crede, sono “meschine, dominate dagli istinti peggiori, vogliono solo imporsi, urlare, calpestare ogni cosa bella” e allora la purezza, ciò che Matteo incarna ai suoi occhi, è l’unica protezione, per entrambi, contro lo schifo del mondo.
Nel nuovo romanzo di Marco Lodoli, Tanto poco, proposto allo Strega da Elena Stancanelli, la voce narrante idealizza un uomo, convinta sia l’unica cosa in grado di dar senso al presente e al futuro, in un’ottica che abbraccia il per sempre. Così sarà.
Per lui annulla ogni altra possibilità e prospettiva, nutre un amore “puntuale come un cane che aspetta alla stazione” e che non lascia spazio a pensieri carnali, ma contempla unicamente “fantasie morbide, leggerissime”. Non importa se Matteo neanche la vede, se a malapena sa che esiste, se la chiama Caterina – ma non è il suo nome –, se lei sembra una “parte del paesaggio, un movimento indifferente sul bordo”. Gli è sempre accanto, anima e corpo, ma non ipotizza mai di dirglielo, di confessare. Lo segue, frequenta i luoghi in cui potrebbe essere sperando di vederlo da lontano, in una perenne indagine che mira a tenerlo al sicuro, come farebbe un angelo custode, da tutto ciò che potrebbe lederlo,
“Tanto poco” di Lodoli è un romanzo sulla scuola e sull’impietoso scorrere del tempo
cioè frustrazioni e patimenti. Lo conosce a fondo, eppure a legarli è solo qualche parola volante scambiata con formalità al lavoro.
Matteo, nel mentre, affronta l’ottovolante della vita: l’insegnamento che condisce con guizzi anticonformisti e ribelli invisi ai più (la scuola è il grande amore di Lodoli, che qui conferma l’essenzialità di stile, aggraziato e poetico, al servizio della complessità dell’essere umani), l’ambizione a diventare uno scrittore famoso, la costruzione di una famiglia. Tanti alti, molti bassi. Il suo esordio è un osanna, ma le successive prove sono un flop e il tempo lo getta presto nella pila dei dimenticati. Poi il senso di fallimento avanza, l’abbrutimento incalza. Gli anni passano, inesorabili e impietosi per tutti e due, ma mentre Matteo ha seguito traiettorie, lei non si è mai mossa da quell’ossessione a senso unico, sentimento totalizzante ma invisibile, a tratti tossico, o forse necessario perché c’era un vuoto da colmare. “Il mio amore senza senso aveva un senso, io lo so anche se non so niente”. Certamente è un amore disperato, tanto “ogni speranza è una pretesa, un meschino investimento sul futuro, una scommessa che chiede fortuna”. Lei ricorda spesso un verso di Rimbaud che le è caro, “par delicatesse j’ai perdu ma vie”. Perdere la vita per delicatezza. Può valerne la pena? Tanto poco.