IL FIERO DOMATORE DI LEONI, LO STARNUTO EMPATICO E LA CONVERSIONE DI GIDE
Da un racconto apocrifo di André Dahl. L’altra sera, al circo Gluck, fu chiesto ai presenti se ci fosse un animoso disposto a procedere nella gabbia del leone. L’esito fu formidabile: alzammo la mano in ventisei. Poiché il cimento era concesso a uno solo, quell’unico fu estratto a sorte, e toccò a me. Vi farò adesso una rivelazione. Il mio coraggio è sovrumano. Non c’è specie animale che io tema, con l’eccezione, forse, di qualche critico teatrale. E quando entro in una gabbia di bestie feroci è a fronte alta; ma con le opportune precauzioni, segreti di domesticazione di cui voglio mettervi a parte. Eccomi nella gabbia. Il leone fa l’atto di lanciarsi su di me, che, tranquillo, l’attendo con le mani in saccoccia. Alla sua mossa, levo di tasca una mano misteriosamente rinchiusa, e la dispiego contro la fiera con l’atto di chi fa un esorcismo. Pepe in polvere. Sul momento, il leone scoppia in uno sternuto, e il piccolo incidente basta a renderlo mansueto, e a valermi tutta la sua rassicurante indulgenza. Cos’è, infatti, uno sternuto? Un patto di alleanza. Con la sua euforica esplosione, esso determina tutta una vicenda di gesti, di parole, di ammiccamenti, di sorrisi, che impegnano vicendevolmente alla cordialità. “Eccì!”. “Salute”. “Grazie”. “Prego”. Così dicono le parole; o, trattandosi di un leone, gli sguardi. E poiché ognuno di essi è un’offerta, è un legame, i cuori disarmano, gli unghioni rientrano, la pace è fatta. Ho meno fiducia, invece, nella potenza domatrice dei suoni, pur dopo le esperienze di Hagenbach e quelle più recenti di Peters. Il leone, se dobbiamo credere a quei dotti, sarebbe sensibile quanto l’elefante ai ballabili moderni, mostrando inoltre un certo gusto nel distinguere la musica buona dalla cattiva. Sarebbe un po’ rischioso, tuttavia, consigliarvi di accennare semplicemente un paso doble al vostro ingresso nel gabbione per ottenere che il leone si distenda in ascolto ai vostri piedi, illanguidisca gli occhi al motivo, segni la cadenza col battere della coda sui fianchi, e magari si unisca a voi nel ballo (Hagenbach ci rimise un braccio). È più sicuro recarsi al suo cospetto fischiettando un motivetto di Maurice Chevalier: onde subito il leone si allontanerà, sdegnato, con manifesti segni di ripugnanza nel grugno, accucciandosi in un angolo per dare a tutti un’altra prova del suo buon gusto musicale. Pare funzioni anche tenere al leone una serie di conferenze vegetariane circa i vantaggi dei legumi sulla carne, qualche giorno prima di affrontarlo al di là delle sbarre: lo assicura lo scultore Ceccarelli, ma è noto per i suoi monumenti funerari, dunque potrebbe avere secondi fini. Rifiuto poi per principio, in quanto sleali, stratagemmi come l’elettrificazione dei bottoni metallici del giubbotto, ottenuta tramite una pila dissimulata. Il leone s’avventa, abbranca, e cade folgorato, come quell’attor giovane che nella scena passionale de La signora delle camelie avvertì il primo contatto dei seni di Sarah Bernhardt. C’è poi quel tedesco che appare ai leoni, annichilendoli, senza pistola né scudiscio, non esibendo altro che il cadavere di un topolino appeso alla catena del panciotto: il terrore delle belve per la scurrile, sfuggente minuzia del sorcio è leggendaria. Ora io so ottenere (e qui sta la mia novità) lo stesso effetto del domatore tedesco senza portarmi addosso la sudiceria di quella carognetta: mi basta tenere nella tasca della giacca, ben visibile, una copia del Figaro. Il leone si fa incontro minaccioso. Le zanne sono pugnali; gli occhi, saette. Già il suo ronfo s’incollera e mi sfiora. Impavido, a chiara voce, io sillabo le prime parole dell’articolo di André Gide sulla sua conversione al cattolicesimo. Immediatamente, il leone indietreggia, e cerca scampo arrampicandosi sulle sbarre. Ma ho ripudiato questo metodo: è troppo crudele.