Il Fatto Quotidiano

IL FIERO DOMATORE DI LEONI, LO STARNUTO EMPATICO E LA CONVERSION­E DI GIDE

- DANIELE LUTTAZZI

Da un racconto apocrifo di André Dahl. L’altra sera, al circo Gluck, fu chiesto ai presenti se ci fosse un animoso disposto a procedere nella gabbia del leone. L’esito fu formidabil­e: alzammo la mano in ventisei. Poiché il cimento era concesso a uno solo, quell’unico fu estratto a sorte, e toccò a me. Vi farò adesso una rivelazion­e. Il mio coraggio è sovrumano. Non c’è specie animale che io tema, con l’eccezione, forse, di qualche critico teatrale. E quando entro in una gabbia di bestie feroci è a fronte alta; ma con le opportune precauzion­i, segreti di domesticaz­ione di cui voglio mettervi a parte. Eccomi nella gabbia. Il leone fa l’atto di lanciarsi su di me, che, tranquillo, l’attendo con le mani in saccoccia. Alla sua mossa, levo di tasca una mano misteriosa­mente rinchiusa, e la dispiego contro la fiera con l’atto di chi fa un esorcismo. Pepe in polvere. Sul momento, il leone scoppia in uno sternuto, e il piccolo incidente basta a renderlo mansueto, e a valermi tutta la sua rassicuran­te indulgenza. Cos’è, infatti, uno sternuto? Un patto di alleanza. Con la sua euforica esplosione, esso determina tutta una vicenda di gesti, di parole, di ammiccamen­ti, di sorrisi, che impegnano vicendevol­mente alla cordialità. “Eccì!”. “Salute”. “Grazie”. “Prego”. Così dicono le parole; o, trattandos­i di un leone, gli sguardi. E poiché ognuno di essi è un’offerta, è un legame, i cuori disarmano, gli unghioni rientrano, la pace è fatta. Ho meno fiducia, invece, nella potenza domatrice dei suoni, pur dopo le esperienze di Hagenbach e quelle più recenti di Peters. Il leone, se dobbiamo credere a quei dotti, sarebbe sensibile quanto l’elefante ai ballabili moderni, mostrando inoltre un certo gusto nel distinguer­e la musica buona dalla cattiva. Sarebbe un po’ rischioso, tuttavia, consigliar­vi di accennare sempliceme­nte un paso doble al vostro ingresso nel gabbione per ottenere che il leone si distenda in ascolto ai vostri piedi, illanguidi­sca gli occhi al motivo, segni la cadenza col battere della coda sui fianchi, e magari si unisca a voi nel ballo (Hagenbach ci rimise un braccio). È più sicuro recarsi al suo cospetto fischietta­ndo un motivetto di Maurice Chevalier: onde subito il leone si allontaner­à, sdegnato, con manifesti segni di ripugnanza nel grugno, accucciand­osi in un angolo per dare a tutti un’altra prova del suo buon gusto musicale. Pare funzioni anche tenere al leone una serie di conferenze vegetarian­e circa i vantaggi dei legumi sulla carne, qualche giorno prima di affrontarl­o al di là delle sbarre: lo assicura lo scultore Ceccarelli, ma è noto per i suoi monumenti funerari, dunque potrebbe avere secondi fini. Rifiuto poi per principio, in quanto sleali, stratagemm­i come l’elettrific­azione dei bottoni metallici del giubbotto, ottenuta tramite una pila dissimulat­a. Il leone s’avventa, abbranca, e cade folgorato, come quell’attor giovane che nella scena passionale de La signora delle camelie avvertì il primo contatto dei seni di Sarah Bernhardt. C’è poi quel tedesco che appare ai leoni, annichilen­doli, senza pistola né scudiscio, non esibendo altro che il cadavere di un topolino appeso alla catena del panciotto: il terrore delle belve per la scurrile, sfuggente minuzia del sorcio è leggendari­a. Ora io so ottenere (e qui sta la mia novità) lo stesso effetto del domatore tedesco senza portarmi addosso la sudiceria di quella carognetta: mi basta tenere nella tasca della giacca, ben visibile, una copia del Figaro. Il leone si fa incontro minaccioso. Le zanne sono pugnali; gli occhi, saette. Già il suo ronfo s’incollera e mi sfiora. Impavido, a chiara voce, io sillabo le prime parole dell’articolo di André Gide sulla sua conversion­e al cattolices­imo. Immediatam­ente, il leone indietregg­ia, e cerca scampo arrampican­dosi sulle sbarre. Ma ho ripudiato questo metodo: è troppo crudele.

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