Lucy sul “lockdown perenne” che è la vita
ÈQuarto capitolo della Strout dedicato alla protagonista scrittrice, fuggita nel Maine per Covid
una mattina di marzo 2020 e Lucy non immagina che non rivedrà mai più il suo appartamento di New York, non sa che un membro della sua famiglia e un’amica moriranno a causa del Covid, né che il rapporto con le due figlie muterà profondamente. La vita di Lucy Barton, affermata scrittrice sessantenne di recente rimasta vedova, è destinata a “diventare una cosa diversa”, solo che non ne ha idea mentre trascina il suo trolley verso l’auto di William, suo primo marito nonché scienziato, deciso a portarla via – “Quello che faccio io, Lucy, è cercare di salvarti la vita” – alla volta della costa del Maine – “era come un paese straniero per me. Solo che i posti stranieri mi fanno sempre paura. A me piacciono i posti noti” – un luogo in cui sono stati di recente. È un cambiamento di rotta destabilizzante, Lucy fatica a cogliere la portata di ciò che sta per deflagrare a livello mondiale, mentre William ne ha una vaga idea, senza contare che a una certa età abbandonare le proprie piccole certezze lascia smarriti.
In Lucy davanti al mare, quarto capitolo del ciclo a lei dedicato a firma Elizabeth Strout, 68 anni, Pulitzer con Olive Kitteridge (personaggio che qui compare con un cameo!), ritroviamo tutti gli ingredienti che hanno reso Lucy, voce narrante, un personaggio amatissimo, così umano da sembrare vero. Ancora sofferente per la recente perdita del secondo marito, stordita dai rapidissimi mutamenti che pandemia e lockdown impongono, si ritrova in una doppia bolla: quella protettiva dell’isolata casetta nel Maine in cui si (ri)trova a condividere gli spazi con William e quella della sua mente. Tra tuffi nel passato, giù fino all’infanzia, riflessioni sull’evoluzione del suo percorso, sullo scarto tra aspettative e realtà, sulle fragilità e le paure che la vecchiaia porta con sé, compresa quella della morte, e l’apprensione per chi ha a cuore come le figlie, entrambe alle prese con la vita che s’incrina e mette in crisi (un genitore spera sempre che i figli non commettano i loro stessi errori, ma attraversare le difficoltà è necessario quanto fisiologico), Lucy è costretta a fare un bilancio del punto in cui è.
Quando è in difficoltà si rivolge alla “madre buona” che si è inventata negli anni, quella che non ha mai avuto. Una voce che le assicura che le cose si sistemeranno e che deve fidarsi di se stessa. Questo continuo avanti e indietro sulla linea del tempo, giocato su chiaroscuri interiori, non esclude però quella speranza (nei romanzi di Strout non manca mai) che la vita sia sempre in grado di stupirci, se glielo consentiamo. Infatti, sebbene il romanzo sia attraversato verticalmente dal riaffiorare di antiche paure, dal timore bruciante della solitudine, di ciò che non si conosce e che non si può controllare – pandemia docet – una luce resta sempre accesa. “Mi sono seduta a pensare alle ragazze, e a William, e a David – che se n’era andato per sempre – e al fatto che un giorno o l’altro ce ne saremmo andati tutti”, riflette Lucy alla fine. “Non che fossi triste al pensiero, era solo una constatazione. E poi mi ha attraversato la mente questo: siamo in perenne lockdown, ognuno di noi lo è. Solo che non lo sappiamo, tutto qui. Ma facciamo del nostro meglio. La maggior parte di noi cerca solo di arrivare in fondo”.