Dante come Artusi: le ricette dell’inferno
TRA COMMEDIA E CIBO “Milanesiana” in Romagna
La Romagna, evocata nel V dell’inferno da Francesca come affacciata sulla “marina dove il Po discende”, sembra quasi alla ricerca di una pace impossibile, negata dal fremere di cieche passioni, dall’arroccarsi di poteri tirannici, da un intreccio di violenze politiche e domestiche, mentre nel XIV del Purgatorio si proietta l’ambigua nostalgia per un passato perduto.
La Romagna, evocata nel V dell’inferno da Francesca come affacciata sulla “marina dove il Po discende”, sembra quasi alla ricerca di una pace impossibile, negata dal fremere di cieche passioni, dall’arroccarsi di rapaci poteri tirannici, da un intreccio di violenze politiche e di violenze domestiche, mentre nel XIV del Purgatorio si proietta l’ambigua nostalgia per un passato perduto (“le donne e’cavalier, li affanni e li agi/ che ne ’nvogliava amore e cortesia”). Personaggi e luoghi della Romagna più volte si affacciano nell’inferno, nel suo buio che si accende alla vista penetrante del viaggiatore, lasciando balenare improvvisi colori, dall’ “aura nera” che trascina gli amanti Francesca e Paolo, al corusco brillare del fuoco che avvolge Guido damontefeltro, alla gola “vermiglia” di sangue dello squarciato Pier da Medicina, al “cristallo” di ghiaccio in cui è immerso il traditore frate Alberigo. Colori anche in quel buio che cancella ogni colore: e ci sono i colori degli stemmi, come le “branche verdi” dell’ insegna degli Ordelaffi di Forlì, e tanti altri colori che sempre più si accendono nella luce crepuscolare del Purgatorio e nel tripudio cosmico del Paradiso . E del resto, come mostrano le molteplici trasposizioni pittoriche, siamo tutti portati a percepire il poema sotto il segno del colore, come una delle opere più “colorate” della letteratura mondiale.
Certo minor rilievo ha nella Com media l’alime ntazio ne, anche se l’autore ne fa un determinante uso metaforico: insiste più volte sulla metafora del libro e della cultura come insegnamento/ nutrimento (e del resto aveva già scritto proprio un Convivio) e non può evitare di ricordare che la cacciata dal Paradiso terrestre è stata determinata proprio dall’aver gustato un frutto proibito. L’albero del Paradiso terrestre mi fa subito evocare l’artusi, che, nella ricetta del Gelato di banane (766), nota che il banano è volgarmente chiamato Fico di Adamooalbero del paradiso terrestre . Frutto o gelato, nel poema dantesco non si mangia: ci si nutre del sapere offerto dai vari incontri con le anime e dell’insegnamento di Virgilio e di Beatrice, ma nei sette giorni del viaggio oltramondano non c’è nessuna pausa pranzo né tantomeno cene. Nelle situazioni e nelle vicende di vari personaggi si affacciano però alcuni richiami alla fame, alla voracità, all’atto del mangiare: a tutti è noto il conte Ugolino, con il “fiero pasto” che fa della testa dell’arcivescovo Ruggieri, il nemico traditore a cui è addossato; e, per venire in Romagna, si può ricordare la voracità dei “mastini” Malatesta, che a Rimini, “là dove soglion fan d’i denti succhio”.
Tra vizi e peccati non manca naturalmente la gola, secondo cerchio dell’inferno e sesto girone del Purgatorio. Lasciamo da parte la pioggia repellente che precipita addosso ai golosi infernali e arriviamo subito ai golosi digiunanti del Purgatorio, e facciamoci accompagnare da un richiamo fatto dall’artusi, a proposito dell’anguilla arrosto (ricetta 491): “Potendo, preferite sempre le anguille di Comacchio che sono le migliori d'italia se non le superano quelle del lago di Bolsena rammentate da Dante”. È il papa francese Martino IV (1281-1285), che nel girone dei golosi “purga per digiuno/ l’anguille di Bolsena e la vernaccia”: papa che preferì soggiornare lontano da Roma e sembra che addirittura sia morto per indigestione di anguille (dice il commentatore Iacopo della Lana: “facea torre l’anguille del lago di Bolsena, e quelle facea annegare e morire nel vino della vernaccia, poi fatte arrosto le mangiava”). Eletto per iniziativa del connazionale Carlo d’angiò, questo papa ebbe anche a fare con la Romagna, dato che inviò truppe pontificie e francesi contro Forlì, allora in mano al ghibellino Guido da Montefeltro: ma questi respinse l’ultimatum papale e il 1° maggio 1282 fece strage degli assedianti che erano penetrati in città (Dante stesso ricorda come fu fatto “di Franceschi sanguinoso mucchio”). A Forlì riconduce anche un altro goloso purgatoriale, un messer Marchese degli Orgogliosi, che qui ebbe agio di bere senza limiti e senza sentirsi mai sazio. Invece nei pressi di Faenza (vicino alla Pieve di Cesato) ci porta il pranzo con tradimento organizzato dal “peggiore spirto di Romagna”, frate Alberigo Manfredi: all’atto di chiamare in tavola la frutta questi fece uccidere dei parenti che aveva invitato a scopo di pacificazione, dando luogo ad un detto molto noto, frutta di frate Alberigo, che parlando con Dante egli sviluppa in immagine sarcastica della propria condanna infernale: “I’ son frate Alberigo./ i’ son quel da le frutta del mal orto,/ che qui riprendo dattero per figo”.
Alla fine dell’appendice dedicata alla Cucina per gli stomachi deboli, Pellegrino Artusi dà vari consigli per un buon uso della frutta e invita poi a far uso moderatissimo del vino, raccomandando il “bianco asciutto” di Orvieto e concludendo con un celebre motto dantesco, trasportato dal piano metaforico a quello reale: “Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba” ( Pa ra di s o , X 25). Concludo allora appropriandomi di un’altra celebre metafora dantesca, quella dell’opera e della vita come nave/ barca: sono convinto che, come lettori di Dante, siamo tutti “in piccioletta barca” e rischiamo davvero di rimanere “smarriti” ( Paradiso , II, 1-6). Ma qui per fortuna possiamo rispondere, con l’inossidabile Orietta Berti, Fin che la barca va…
Due giganti L’omaggio al grande gastronomo, di cui ricorre il bicentenario, e le tracce dell’alighieri dedicate alla fame e alla gola